Ci si siede alternati, il posto lo indica la boccetta con il disinfettante per le mani, altrove introvabile. In aula i deputati si mantengono distanti, anche perché non sono più di cinquanta quando parla il ministro Gualtieri. Riescono a rispettare le distanze persino entrando e uscendo, sotto la regia del presidente Fico che fa il vigile dall’alto – «avanti, non rallentate!» – nell’unico momento in cui l’emiciclo è pieno per metà. Quando si vota. Tutti favorevoli, tranne Sgarbi astenuto (annunciato da ripetute dichiarazioni scettiche, si è presentato con la mascherina). Eppure, malgrado l’unanimità, è solo per una manciata di voti che viene raggiunta la maggioranza assoluta (servivano 316 sì, ne sono arrivati 332). Nel palazzo dove tutte le finestre sono aperte, ti misurano la febbre quando entri, bar e ristoranti sono chiusi, i distributori di gel antisettico sono a ogni angolo, la paura si misura con le assenze. Soprattutto dopo che martedì un deputato del gruppo misto è stato trovato positivo al tampone, e tutti quelli che sedevano attorno a lui nell’ultima seduta, il 4 marzo, sono stati invitati a restare a casa. Si scopre così la vera ragione dell’accordo con il quale i gruppi si erano impegnati a portare in aula 350 deputati. Non erano «solo 350» per le ragioni di tutela della salute che pure avevano sollevato dubbi nei costituzionalisti, preoccupati dal precedente. Ma «almeno» 350 coraggiosi, indispensabili per far passare l’extradeficit. E alla fine anche tra i prescelti qualcuno non se l’è sentita.

Al senato invece non ci sono tanti disinfettanti in aula, e allora la senatrice Bernini fende l’emiciclo per offrirne dal suo a Renzi, che si sta preparando l’intervento. Qui gli spazi sono ridotti rispetto alla camere e non tutti riescono a tenersi a debita distanza. Non certo i commessi che, nell’inconsueto silenzio, devono parlarsi sottovoce all’orecchio. E la presidente Casellati ha più volte bisogno dell’assistenza ravvicinata dei segretari generali. Quando poi finisce il suo turno, un commesso in guanti di lattice ferma la vice presidente Taverna e prima di farla sedere spruzza abbondante disinfettante sulla poltrona e la scrivania. La votazione finale è una lunga cerimonia senza pathos. I senatori presenti vengono fatti entrare in gruppi di tre o quattro, si siedono agli angoli opposti dell’emiciclo, viene immediatamente chiamato il loro nome, rispondono di sì, tutti, e vanno via dalla porta che gli viene indicata. Ci vogliono due ore e mezza e i favorevoli sono alla

fine 221, solo cinque più del minimo indispensabile.
Chiuse le sedute, i parlamentari se ne vanno chiedendosi quando dovranno o potranno ritornare. La prossima seduta della camera è prevista tra una settimana, quella del senato tra due. Eppure potrebbero aumentare i casi di deputati e senatori positivi, e di conseguenza gli isolamenti dei colleghi che li hanno avvicinati troppo, forse proprio ieri. Le domande su come assicurare continuità all’organo in cui si esercita la sovranità popolare cominciano a farsi drammatiche. Il deputato di +Europa Magi, uno dei 14 ai quali è stato chiesto dalla camera – informalmente e a voce – di non presentarsi in aula, sostiene che «in un momento così straordinario della vita del paese discussioni e voto a distanza non devono essere visti come tabù». Se n’era parlato in giunta per il regolamento giusto una settimana fa, quando la crisi cominciava a precipitare. Una discussione nata dal fatto che un deputato di Codogno era impossibilitato a raggiungere l’aula, un po’ surreale a rileggerla oggi visto che ha risolto il problema assimilando la posizione del parlamentare nella ex zona rossa a quella delle parlamentari in maternità. Contro la richiesta del Pd di aprire al voto a distanza, il presidente Fico ha recuperato posizioni di Fini del 2011 (un’altra epoca in fatto di tecnologie), in base alla quale la presenza dei parlamentari prevista dall’articolo 64 della Costituzione deve intendersi come presenza esclusivamente fisica. Ma intanto, mentre i palazzi si svuotano chissà per quanto tempo ancora, il rischio che lo stato di eccezione lasci i decreti del governo senza adeguato controllo parlamentare si fa concreto.