É stupefacente la quasi totale dimenticanza nel dibattito che ha visto il confronto sui progetti di riavvio dell’economia del capitolo Agricoltura. Questo vuoto sta a confermare un pregiudizio antico e un errore concettuale che indicano fino a che punto si ignori come le funzioni collegate con l’agricoltura possano avere una straordinaria valenza strategica nel ri-progettare l’Italia.

Il pregiudizio è l’idea che solo l’industria e la manifattura siano fattori di sviluppo economico e sociale. Si insiste su una visione consumistica e capovolta del benessere sociale, si ignora la stessa lezione che ci viene dalla tragedia del Coronavirus che ha reso ben evidente quanto sia “ primaria” l’agricoltura e la produzione di cibo. Giustamente si ringraziano medici e infermieri per quanto hanno fatto nella tragedia del Coronavirus,ma il primo grazie andrebbe dato a quei contadini e a quei produttori, senza il lavoro e la dedizione dei quali, il dramma della pandemia avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose.

L’errore concettuale grave è quello di considerare la natura una merce qualsiasi da sfruttare e manipolare secondo la volubilità del mercato, dimenticando che la “terra” è una risorsa straordinaria da conservare e valorizzare. Un bene che può aiutare ad affrontare il problema del mutamento climatico. Senza calcolare che proprio il moderno lavoro dei campi, può essere una straordinaria opportunità di nuova occupazione.
Sono tante le ragioni che dovrebbero fare dell’agricoltura una nuova questione nazionale, a cominciare dalla necessità di espellere il veleno dalla nostra terra. L’Italia è il paese che ha il più alto consumo di pesticidi. Si tratta invece di aumentare il “biologico”, di conservare la biodiversità e recuperarla là dove le coltivazioni intensive e la monocultura l’hanno compromessa.

Secondo l’Ispra il 40% dei terreni coltivati intensivamente entro il 2050 verrà perso, dal 1970 a oggi sono stati abbandonati cinque milioni di ettari. È un’emergenza. Nel documento “farm to fork” dell’UE si scrive che bisogna ridurre del 50% l’uso dei pesticidi, che bisogna portare le superfici di coltivazione biologica dall’8% al 25% e si chiede che il 10% della superficie coltivata sia destinata alla biodiversità.
Passare da un’agricoltura chimica e industrializzata a una produzione di qualità vorrebbe dire anche nuova e qualificata occupazione.

Per avviare una riforma seria dell’agricoltura c’è bisogno di grandi investimenti. Anche perché il passaggio da un’agricoltura intensiva a una sostenibile deve tenere fermo un principio fondamentale: migliorare il reddito dei contadini, sempre più ridotto a vantaggio di quello di chi distribuisce.

Il Recovery Fund è la prima opportunità da cogliere per avviare questo progetto e per questo è grave che nemmeno se ne parli. Così come della urgente necessità di cambiare la Pac che dei suoi 600 miliardi di aiuti ne fa arrivare solo il 20 % ai pirccoli e medi produttori..
L’investimento nella sostenibilità ha un’altissima redditività nel tempo, perché preserva la fertilità della terra ma anche perché la presenza umana nelle campagne impedirebbe il loro degrado, dovuto in larga parte all’assenza di manutenzione del territorio, che infatti frana, porta all’esondazione dei fiumi e tutti gli altri danni che conosciamo. Garantire un reddito minimo ai lavoratori agricoli non è, quindi, una misura di assistenza, ma un investimento.

Infine: una radicale nuova riforma agraria, quale deve essere quella agro-ecologica, ha bisogno di più ricerca, di più innovazione, di più assistenza tecnica.

Come i distretti industriali furono fondamentali per uscire dalla crisi del petrolio dei primi anni 70, così i Distretti Biologici possono essere uno strumento importante, perché partendo dall’agricoltura si possa cambiare l’organizzazione del territorio: dal ciclo dei rifiuti alle energie rinnovabili, dalle attività della manifattura al turismo rurale. L’alleanza fra produttori agricoli, mondo delle associazioni ed enti locali può essere il motore di questo cambiamento.