Nata con intenti polemici, la parola «Medioevo» ha continuato a far litigare. La inventarono gli umanisti del Quattrocento, i quali svilupparono l’idea già anche petrarchesca (e che del resto aveva illustri precedenti antichi) della decadenza della civiltà fino a giungere alla conclusione – per allora nuova e rivelatrice che il mondo della grande cultura, l’acme della quale era stato segnato dall’impero romano e dalla nascita del Cristo – era finito: e la coscienza della rottura rispetto all’età antica e della necessità di risalire la china della decadenza sino a far rivivere in forme nuove l’antico splendore (quel che sarebbe stato chiamato più tardi «Rinascimento») li condusse a trattare i lunghi secoli «di mezzo» come media aetas, media tempestas, media tempora.

Durante il Cinquecento, eruditi e polemisti tanto cattolici quanto protestanti – il cardinale Baronio e i «Centuriatori di Magdeburgo», ad esempio – continuarono a litigar ferocemente sul medesimo presupposto: accettando entrambi che i secoli successivi alla caduta dell’impero romano erano stati lunghi tempi di barbarie e d’ignoranza, si rinfacciavano reciprocamente la responsabilità di tale decadenza, che per i cattolici erano stati quei popoli nordici dai quali sarebbe poi partita anche l’altra sciagura, la Riforma, mentre per i protestanti causa di tutto era la corruzione della sede pontificia.

Nel Settecento illuministico, «Medioevo» divenne sinonimo di ogni sorta di superstizione, di fanatismo e d’ignoranza; nell’Ottocento romantico, al contrario, si vollero vedervi invece fede, bellezza, spontaneità naturale, gioia di vivere. Ecco in che senso, in fondo, quando continuiamo a polemizzare su queste cose, e usando ancora queste vecchie astrazioni, restiamo un po’ tutti figli di Voltaire o di Novalis.

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D’altronde, una delle ragioni non ultime della complessità e della confusione su cui si basa questa plurisecolare polemica sta nel fatto che il cosiddetto «Medioevo» abbraccia nella periodizzazione più diffusa un intero millennio, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente (476) alla scoperta dell’America (1492). Un millennio nel quale sono accadute troppe cose: è mai possibile che due personaggi come il goto teodorico e Lorenzo il Magnifico vengano accomunati dal fatto di poter essere definiti entrambi «medievali»? In mille anni ne succedono, di cose: tutto e il contrario di tutto. E allora, come si fa a parlare di un «uomo medievale», di una «società medievale», di una «cultura medievale» e così via, come se fossero qualcosa di compatto e di coerente? Infatti, non si può. Anzi, perfino la convenzionale parola «Medioevo» è un rebus insensato. Chi l’ha inventata, più che una definizione, ha inteso dare una non-definizione. Medio-Evo: età di mezzo, periodo di transizione fra le sole età che contano, l’antica e la moderna. Ma la natura concettuale di questa non-definizione rende arduo l’uscire dal suo cerchio.

Ci ha provato con passione, nella sua carriera di storico e medievista insigne, Jacques Le Goff; non è quindi casuale che la sua ultima opera, che in Italia esce postuma con il titolo Il tempo continuo della storia (Laterza, pp. 156, euro 15), sia una riflessione breve ma articolata sul concetto di periodizzazione, sul «lungo Medioevo» che non si esaurisce nelle date canoniche, sulla falsa contrapposizione tra Medioevo e Rinascimento: anche quest’ultimo un’invenzione, sebbene tardiva, ottocentesca, destinata a grande fortuna negli studi della prima metà del Novecento.

Le Goff ci mostra come le radici di un modo nuovo di pensare l’essere umano, la svolta della Modernità, affonda le radici nei secoli d’oro che l’Europa ha vissuto tra XII e XIII: «questo decisivo orientamento di pensiero che non concepisce la teologia senza l’umanesimo si è prodotto fin dal Medioevo. La rinascita del XII secolo, insistendo sull’idea che l’uomo è fatto ‘a immagine di Dio’, nonché tutta la grande scolastica del XIII secolo, e in particolare san Tommaso, ritengono, e affermano, che il loro vero oggetto di riflessione, attraverso Dio, è appunto l’Uomo. L’umanesimo dipende da una lunga evoluzione che si può far risalire all’antichità».

A tale evoluzione Jacques Le Goff ha dedicato larga parte della sua opera, buon successore di Marc Bloch e della sua immagine dello storico che, al pari dell’orco delle fiabe, fiuta odore di carne umana.