«Il rifiuto dell’annuncio di Trump da parte della comunità internazionale è importante ma qui sul Golan occupato guardiamo avanti, ai progetti già approvati che Israele attuerà nei prossimi anni». Chiede di andare oltre le dichiarazioni di condanna e di agire per far rispettare la legalità internazionale Wael Tarabeih, attivista dei diritti dei 25mila drusi siriani sotto occupazione israeliana dal 1967. Con l’associazione Marsad da tre giorni è impegnato a mobilitare la sua comunità e ad esortare i giornalisti ad occuparsi delle Alture del Golan non solo per gli aspetti che le legano al conflitto in Siria. Mentre Taraibeh risponde alle nostre domande, centinaia di abitanti dei quattro centri abitati drusi nel Golan tengono un sit in di protesta a ridosso delle linee di armistizio tra Israele e Siria. L’ottobre scorso migliaia di drusi manifestarono contro lo svolgimento delle elezioni municipali israeliane sul Golan, bloccando il seggio elettorale di Majdal Shams, il più importante dei villaggi drusi, e sventolando bandiere siriane.

Le iniziative di protesta si intensificheranno la prossima settimana, in concomitanza con la firma alla Casa Bianca del documento con il quale Trump, alla presenza del premier Benyamin Netanyahu, riconoscerà a nome degli Stati Uniti le Alture del Golan come parte del territorio israeliano. I media locali ieri annunciavano l’invio di rinforzi di polizia ed esercito nella regione per contenere manifestazioni e raduni dei drusi. «I media – prosegue Tawaibeh – ignorano le profonde trasformazioni che lo Stato di Israele ha impresso a questo territorio». Il piano, afferma, «è portare nel Golan altri 100mila israeliani che andranno ad aggiungersi ai 23mila coloni che vivono in 34 insediamenti illegali, tra i quali alcuni kibbutz». L’attivista ci dice che sono previsti vasti progetti turistici, per la produzione di energia e l’agricoltura. «E – conclude Taraibeh – sono tutti a vantaggio dei coloni israeliani non certo dei drusi che rifiutano l’occupazione e si proclamano cittadini siriani. Questi piani avranno un impatto devastante sull’identità del territorio e sulla nostra cultura. Queste per noi sono le priorità, le parole di Trump vengono dopo i fatti concreti che affrontiamo nella nostra vita quotidiana». A questo proposito ieri l’associazione Marsad, in un tweet, sottolineava che il programma di sminamento del Golan avviato nel 2011 da Israele ha privilegiato le aree circostanti alle colonie e solo superficialmente quelle dei villaggi drusi limitando così la loro possibilità di espansione e di sviluppo agricolo.

A Majdal Shams i più anziani ricordano di essere stati parte della Siria prima che Israele conquistasse la maggior parte delle Alture nella guerra dei Sei Giorni del 1967. Il Golan è stato poi annesso allo Stato ebraico con un voto della Knesset nel 1981 mai riconosciuto dal resto del mondo. Nei giorni successivi all’occupazione il 95% della popolazione araba fuggì verso la Siria o fu costretta a scappare sotto l’urto dell’esercito israeliano. I drusi furono coinvolti solo in parte. Le autorità israeliane pensarono che si sarebbero uniformati a drusi della Galilea, gli arabi “modello” integrati nello Stato ebraico. Le cose sono andate diversamente. Dopo 52 anni i drusi del Golan ripetono di essere siriani e rifiutano la cittadinanza israeliana.

Il passo fatto da Trump ha infranto la posizione internazionale senza innescare, almeno per ora, l’effetto domino sparato da Washington e Israele. L’Onu, l’Unione europea, la Turchia, l’Iran, la Russia, il mondo arabo, incluso il Consiglio di cooperazione del Golfo, hanno condannato una mossa – fatta anche per aiutare la campagna elettorale di Netanyahu – che rischia di innescare altri conflitti nella regione. La Siria da parte sua ribadisce che non rinuncerà mai a recuperare il Golan, anche a costo di una nuova guerra. I drusi non sono tutti sostenitori del presidente siriano Bashar Assad ma tutti difendono la Siria e la sua integrità territoriale. Tra di essi non pochi hanno parenti stretti dall’altra parte delle linee di armistizio. «Trump può fare le sue dichiarazioni ma sappiamo che il Golan sarà sempre parte della Siria. Il nostro sangue è siriano», afferma Amal Safadi, una bibliotecaria.

Nelle colonie e nei kibbutz israeliani si respira un’aria diversa ma l’annuncio di Trump è stato accolto senza particolari entusiasmi. I coloni sono certi che il Golan non sarà mai restituito alla Siria e si sentono tranquilli da tempo. «Il riconoscimento degli Stati uniti ci rende felici – spiega Haim Rokah, capo del consiglio regionale israeliano nel Golan – ma la nostra routine quotidiana non è legata al riconoscimento o meno della sovranità israeliana».