Le città sante di Najaf e Qom non sono mai state così vicine come in questo momento. Il Grande ayatollah Ali Sistani, massima autorità sciita in Iraq, sembra ora condividere con il laboratorio teologico dell’Iran la lettura degli ultimi sviluppi nella regione, dove il sunnismo più estremista è all’offensiva con vari obiettivi e anche per combattere i nemici di sempre, gli sciiti. L’appello lanciato da Sistani la scorsa settimana «a tutto coloro in grado di portare le armi» perchè si arruolino nell’esercito per fermare l’avanzata dei qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Siis), ha segnato una svolta nell’atteggiamento della massima autorità sciita.

 

Sistani che non ha mai visto con favore il flusso di sciiti che dall’Iraq, Libano e Iran, si dirige in Siria per combattere a sostegno dell’esercito governativo agli ordini di Bashar Assad, con ogni probabilità non guarda più a quella guerra e a quella che sta devastando l’Iraq come a conflitti politici. Piuttosto li intepreta come un nuovo scontro settario che rischia di sfociare in un bagno di sangue sciita. Parlano chiaro le posizioni espresse in questi giorni dal Qatar e dell’Arabia saudita, il primo sponsor dei Fratelli musulmani, la seconda del wahabismo parente stretto del salafismo che anima i jihadisti impegnati a combattere per il califfato sunnita prima nel nord e dell’ovest dell’Iraq e in una porzione della Siria e poi nel territorio complessivo dei due paesi. Secondo Doha e Riyadh quanto sta accadendo in Iraq non sarebbe altro che la conseguenza delle discriminazioni subite dai sunniti sotto il governo dello sciita Nour al Maliki. Senza disconoscere le enormi responsabilità del premier iracheno, è fuorviante ridurre la portata e il significato dell’offensiva lanciata dallo Siis e dai suoi alleati alla reazione di una minoranza discriminata. E’ un modo per nascondere le motivazioni religiose e gli interessi strategici di diverse capitali sunnite in ciò che si muove da tempo nella regione. Interessi e motivazioni che ora appaiono più chiari a Sistani che, andando contro la sua abituale posizione di “neutralità”, ha deciso di scendere in campo.

 

Nato in Iran ma residente nella città santa irachena di Najaf dal 1951, Sistani è il giurista-teologo sciita duodecimano avente la maggior autorevolezza per dottrina e capacità esegetica. E’ un marja al-taqlid ossia una fonte di tentativo di emulazione e imitazione. Sistani non approva o almeno non sostiene la stretta applicazione in politica e nella società della vilayat-i faqih (tutela del giureconsulto), teoria divenuta dopo la rivoluzione islamica del 1979 il principio fondante del potere esecutivo della Repubblica iraniana. Secondo questa teoria, nell’attesa del ritorno dell’iman scomparso (occultatosi e destinato nell’escatologia sciita a manifestarsi alla fine dei tempi), il giureconsulto ha facoltà di tutelare gli interessi della comunità. L’ayatollah Khomeini estese questa tutela assegnando alla massima autorità religiosa il diritto di ultima parola in tutti gli aspetti della vita di uno Stato islamico.

 

Sistani piuttosto vede il ruolo del leader religioso come autorità morale e punto di compromesso, a maggior ragione in società complesse come quelle irachena, siriana o libanese dove vivono assieme sunniti e sciiti ma anche cristiani e numerosi gruppi religiosi di vario orientamento. Per questo dieci anni fa non appoggiò la lotta armata dell’Esercito del Mahdi messo in piedi dal suo scalpitante rivale Muqtada Sadr, così come, almeno fino a qualche giorno fa, non ha sostenuto il ruolo delle varie milizie sciite impegnate in Iraq e su altri fronti di guerra. L’offensiva dello Siis e il sunnismo radicale, spingono ora Sistani a chiamare gli sciiti alle armi in una guerra sempre più di religione e a stringere ulteriormente i rapporti con la potenza iraniana, l’unica nella regione in grado di proteggere milioni di sciiti, non rinunciando alle differenze dottrinali con il clero di Qom.