Malgrado abbia scritto sei romanzi, Lawrence Osborne è noto soprattutto come giornalista giramondo, per Il turista nudo e Bangkok, libri in bilico tra memoir e reportage. Un paio di anni fa il «Guardian» lo presentava ancora come uno scrittore ignoto ai più, pur dicendo di lui che è «il Graham Greene del tempo presente». Lo stesso Osborne, del resto, ci ha messo del suo: dopo avere esordito ventottenne (nel lontano 1986) con Ania Malina, un romanzo dalle tinte lolitesche che narrava di un amore sbocciato in un ospedale francese al termine della seconda guerra mondiale tra un soldato inglese ferito e una giovanissima rifugiata polacca, ha lasciato trascorrere ben ventisei anni prima di dare alle stampe una seconda prova narrativa.

In questo lungo intervallo, ha pubblicato articoli e saggi sugli argomenti più diversi, dall’enologia al mondo nascosto della sindrome di Asperger, a una breve storia del pessimismo sessuale. La varietà eccentrica dei temi sembra intonarsi alla natura erratica di questo scrittore incline a vivere da espatriato, erede anche sotto questo aspetto di Greene, come del resto di molti altri inglesi che in paesi lontani e spesso esotici soggiornarono a lungo, ambientandovi le loro storie. Quei predecessori di Osborne, però – il mercante di legname di Giorni in Birmania, il fanatico idealista dell’Americano tranquillo, il medico oppiomane di Acque sporche, per non parlare dei tanti reietti dei mari del Sud descritti da Conrad – vivevano in tutt’altra epoca; l’imperversare degli operatori turistici in ogni angolo del pianeta ha sottratto alla figura dell’espatriato il fascino decadente che ne faceva un personaggio perfetto da romanzo.

Beautiful animals
Viene da chiedersi se la fama dell’Osborne reporter non abbia oscurato quella del narratore, proprio perché il romanzo tradizionale appare oggi, come del resto molti dei suoi personaggi più tipici, un cascame del passato, inadatto a rappresentare il presente. Che nuove forme di scrittura, le cosiddette narrazioni ibride – peraltro niente affatto nuove, anzi più antiche del romanzo tradizionale – possano davvero risultare oggi più efficaci è tuttavia una illusoria via di fuga alla marginalità in cui la letteratura tutta, di qualsivoglia forma, si vede comunque confinata. A conti fatti, la finzione narrativa resta ancora lo strumento più articolato per affrontare questioni sfuggenti e scivolose, senza che qualche forma di schieramento politico e morale prevalga sulla multiforme contraddittorietà dell’esistere.

Ne è una magnifica dimostrazione L’estate dei fantasmi (traduzione di Mariagrazia Gini, Adelphi, pp. 283, € 18,00), dove le strade dell’occidentale che viaggia per piacere e quelle di chi viaggia per bisogno, perché in fuga da una guerra o dalla fame, finiscono per incrociarsi.

Eccoci dunque a Idra, gioiello dell’Egeo che da sempre attrae gli artisti. Qui avevano casa Jannis Kounellis e Leonard Cohen. Qui fu girato un film con Sophia Loren. E qui si trova a trascorrere l’estate anche la protagonista di Osborne, Naomi, insieme al padre, mercante d’arte, e a una matrigna, perfida come spesso lo sono le matrigne dei romanzi. Da sempre questa giovane donna inglese vive la sua condizione di privilegiata con disagio e sensi di colpa. Ha da poco perso il suo impiego presso uno studio legale per avere difeso un turco accusato di aggressione, finendo sulle pagine dei giornali per le ragioni sbagliate. Stando al padre, infatti, non è la carriera forense a interessare davvero Naomi, bensì la sua attività di buona samaritana, «il mestiere più facile del mondo», che consiste nel prendere posizioni progressiste o di sinistra, a dispetto delle proprie condizioni materiali.

Quel che il padre non sa è che, mentre lui e sua moglie se ne stanno «distesi nel fasto avvolgente dei pigiami, fra icone bizantine e quadri di capitani idrioti», Naomi si alza un’ora prima dell’alba per andarsene al mare sola, di nascosto, tenendosi alla larga da tutti, sdegnando gli apprezzamenti dei ragazzi del resort che finiranno per guardarla con torvo scetticismo.

La sua unica amica Sam, una americana di qualche anno più giovane, è più ingenua e meno sofisticata di lei: a unirle sono, a ben guardare, proprio quei privilegi dai quali Naomi si sente corrotta. È la loro ricchezza a renderle simili e perciò anche amiche. «Che begli animali siamo… belli come pantere», così Sam parlando di sé e di Naomi: molto fitzgeraldiana, l’immagine dice assai sullo stile e lo sguardo di Osborne, e viene infatti ripresa nel titolo originale, Beautiful animals, benché il romanzo assuma presto i tratti di un thriller psicologico.

Quando le due ragazze si imbattono in Faoud, fascinoso rifugiato siriano, naufrago sull’isola, quella che poteva sembrare una rivisitazione muliebre e mediterranea di atmosfere alla Grande Gatsby vira verso il mondo fosco e contorto di Patricia Highsmith, un mondo «senza fini morali» per stare alla definizione che ne dava Graham Greene. Qualche ricordo di Simenon è pure presente, in particolare la brevità fotografica di alcuni suoi incipit descrittivi, i cui dettagli riferiti ai luoghi portano segni premonitori del deragliamento rovinoso che attende i personaggi. La meccanica della narrativa di Osborne è appunto questa: vediamo una turista occidentale aggirarsi lontano da casa e, da come ci viene descritto il posto in cui ha deciso di evadere da sé stessa, intuiamo subito che la sua irresolutezza, le sue contraddizioni, la condurranno a mosse sbagliate, a esiti imprevisti quanto disastrosi.

Un pizzico di perfidia
Per dare un futuro al rifugiato, ma soprattutto per riscattarsi dalla sua condizione di privilegio, spalleggiata dall’amica, Naomi ordisce un piano destinato al peggio. Ciò su cui vale la pena soffermarsi non sono i morti ammazzati che seguono, l’entrata in scena di un investigatore, e dunque il precipitare degli eventi, ma il fatto che romanzo non perde mai il suo torpore estatico, restando ancorato a una certa idea di stile, al senso di raffinata fatuità che pervade ogni cosa, per cui anche gli slanci ideali e umanitari, al pari di una letteratura ridotta a trastullo per pochi, diventano una forma di evasione, se non un nuovo esotismo.

«Gli inglesi dell’isola erano amanti dei libri, socialmente privilegiati, fortemente interessati alla cultura che li circondava. Ma negli ultimi tempi russi ed emiratini sembravano averli soppiantati». Scegliendo il turismo quale ulteriore cartina di tornasole di un occidente ormai più che tramontato, in fin dei conti Osborne non ci racconta nulla di nuovo; però lo fa benissimo e con un pizzico di perfidia. Ci accoglie nella bambagia di un romanzo perfetto, di vecchia maniera, e al contempo ci sbatte in faccia quanto siamo ridicoli, patetici e fuori dal tempo, con il nostro preteso buon gusto e la nostra presunta superiorità morale.