Niente nomi. L’esploratore Roberto Fico procede come Matteo Renzi aveva chiesto e come cautela impone. Limitandosi ai contenuti, ma sapendo che in ballo ci sono i nomi. Alla fine, se arriverà a un accordo, ci sarà qualcosa di molto simile al contratto sul quale si era basato il governo gialloverde, ribattezzato ora «cronoprogramma».

Ma a garantirlo saranno i nomi legati a ognuno dei punti in discussione e tanto il Pd quanto il Movimento 5 Stelle sono consapevoli di dover pagare un prezzo alto alla rinascita della maggiorana. Renzi gioca in realtà su due tavoli, il governo politico e quello istituzionale: non è un vantaggio da poco. Nel centrodestra si è affermato il «lodo Berlusconi», santificato ieri dalla tostissima in persona, sorella Giorgia: «Se da Mattarella arriverà la proposta di un governo di salvezza nazionale la valuteremo con serenità».

CERTO, LA VIA MAESTRA per la destra restano le elezioni e l’eventuale risposta a un ancor più eventuale appello del presidente andrebbe nella direzione di un governo a termine, «per fare 4 o 5 cose e poi votare», secondo l’accordo stretto venerdì tra i leader prima della consultazione.

Significa però comunque che il fallimento di Fico non implicherebbe elezioni immediate, la data dell’11 aprile vagheggiata a palazzo Chigi è ormai una meteora. Subentrerebbe un governo nel pieno dei propri poteri, con fiducia piena e probabilmente abbondante e in questi casi si sa quando i governi nascono mai quando muoiono, checché se ne dica in partenza.

La scelta di Mattarella, non a caso presa malissimo sia dal Pd che da LeU, garantisce al leader di Iv un ulteriore atout. L’esplorazione di nome è di fatto l’intera partita. Se Fico fallisce, Conte precipita.

Se riesce, al premier verrà presentato un pacchetto già confezionato. Non era mai successo che un papabile si trovasse nelle condizioni di non poter trattare sul suo stesso governo. Segno che la disastrosa gestione della crisi nelle settimane scorse qualche cicatrice la ha probabilmente lasciata.

MA PUR SAPENDO DI AVERE carte buone e forse ottime in mano, Renzi sembra non aver ancora deciso come giocarle. Tutto è ancora in bilico: un errore gli sarebbe fatale. La tentazione di mirare al bersaglio grosso, la decapitazione di Conte, però è forte. Per ora l’ex premier mette sul tavolo entrambe le poste: o la sostituzione di Conte o enormi concessioni sul programma. Non si intende la Giustizia: in un eventuale Conte ter il ritorno di Bonafede è fuori discussione e Iv insisterà certamente per un guardasigilli non giustizialista, cioè non 5S.

Non si tratta neppure della Sanità: anche su quel fronte il tiro al bersaglio su Arcuri, per colpire il premier, è garantito. Si tratta dell’Economia. Renzi sa perfettamente che le critiche che rivolge quotidianamente al premier andrebbero in realtà rivolte al ministro Gualtieri. Per quanto vorticoso possa rivelarsi il valzer delle poltrone, un nuovo esecutivo in cui restassero invariate le due caselle centrali, palazzo Chigi e il Mef, sarebbe una fotocopia di quello precedente almeno nel settore a cui il rottamatore è più interessato: la gestione del Recovery Fund.

QUELLO PERÒ È TERRENO minato. Per il Pd sacrificare un ministro dell’Economia che pure non ama e che è stato molto più fedele al premier che non al partito di appartenenza sarebbe probabilmente impossibile. Nicola Zingaretti, che già esce malridotto dal confronto tra la sua staticità e il frenetico attivismo del predecessore, ne uscirebbe a brandelli. Anche la carta di riserva, l’affidamento del ministero dello Sviluppo a un renziano, se non direttamente a Renzi, è poco praticabile.

Al Senato la rivolta dei duri dei 5S contro il ritorno del reprobo in maggioranza è più seria del solito. Il sacrificio di Bonafede il capodelegazione, inevitabile, peggiorerà le cose. Se si aggiungesse anche la cacciata di Patuanelli per far posto a un renziano, nemmeno san Beppe Grillo riuscirebbe a evitare il botto. Dunque Renzi è sempre più tentato di alzare subito la posta al massimo, puntando a sostituire Conte con Mario Draghi. Un nome di fronte al quale, se l’ex presidente della Bce fosse disponibile, il Pd non potrebbe opporre resistenza e sul quale convergerebbe probabilmente anche una parte della destra, se non l’intera Fi almeno una sua cospicua porzione.

SEMPRE CHE, DATA e per nulla concessa quella disponibilità al momento solo immaginaria di Draghi, non spunti fuori in extremis una mediazione che salverebbe la situazione. Conte premier garantirebbe il rispetto formale degli impegni assunti da Pd, 5S e LeU. Draghi al Mes metterebbe al sicuro la sostanza perché in materia di economia il premier non toccherebbe più palla. Ma questa, per ora, è solo fantapolitica. Di certo c’è però che, dopo il primo giorno di esplorazione, né Conte né Gualtieri possono scommettere sul loro ritorno al governo.