Oltre quarantaquattro anni fa, un buffo pulmino squadrato girava per auditorium e piccoli teatri del New England portando in tour una combriccola di musicisti, tecnici, poeti e amici, facchini, tuttofare. Alla guida spesso c’era Bob Dylan, l’inventore di questa serie avventurosa di spettacoli live, una sfida creativa ed esistenziale nata per l’amore di fare musica insieme, per ridare una dimensione umana al rock glitterato dell’epoca. I concerti non erano pubblicizzati in anticipo, il cast degli artisti era abbastanza variabile, la vendita dei biglietti era affidata alla promozione di volantini e a ragazzi-galoppini nel centro cittadino.

Un altro mondo rispetto all’oggi, un mondo totalmente scomparso come The Vanishing Lady, la signora protagonista di una magìa di Houdini che svanisce grazie a un trucco cinematografico nel brevissimo filmato di George Mèliés che apre Rolling Thunder Revue, il film di Martin Scorsese (visibile sulla piattaforma Netflix) di 142 minuti, un lavoro principalmente d’archivio sul materiale video abbandonato per decenni, ora splendidamente restaurato (le 100 ore di registrazione del tour poi la base del film Renaldo and Clara del 1978, uscito nelle sale con una durata quattro ore) e fortificato con interviste attuali ai protagonisti d’allora, compresa una lunga chiacchierata -spezzettata nel montaggio – proprio con Bob Dylan, abilmente ermetico e mefistofelico («Ginsberg? Era tutto tranne che una figura paterna»).

IL PRIMO concerto avvenne il 30 ottobre del 1975 a Plymouth nel Massachussetts- il luogo dove i padri pellegrini sbarcarono col Mayflower quattro secoli fa, il simbolo delle radici europee nella colonizzazione americana – con questi nuovi pionieri sulle tracce dei Medicine Show itineranti, della commedia dell’arte italiana, di un elettrizzante circo sonoro nel desolato Nordest americano in preda alla crisi economica, messo a terra dalla sfiducia nella politica post Vietnam e Watergate. Sul palcoscenico si alternano diverse esibizioni, Mr.Tambourine Man ha messo insieme una superband di una dozzina di persone tra conoscenti e colleghi, in gran parte provenienti dal circuito folk del Greenwich Village, fermando per strada la violinista Scarlet Rivera e facendole un provino con tutte sue canzoni inedite, prendendo il chitarrista inglese Mick Ronson per le amate sonorità bowiane o il cantastorie folk Bob Neuwirth e il preferito Ramblin’ Jack Elliott (uno degli ispiratori dello stile iniziale nasale e narrativo di Bob).

E poi T-Bone Burnett, Steven Soles, David Mansfield, la corista Ronee Blakley (direttamente dal film Nashville) e tanti arruolati per una data o due come l’ex frontman dei Byrds, Roger McGuinn, o la canadese Joni Mitchell, entusiasta dell’esperienza tanto da trasporla nella sua splendida Coyote e naturalmente Joan Baez, con la quale Dylan tornerà a suonare insieme dopo più di dieci anni dall’ultima volta, che lo prenderà in giro, imitandolo col cappello Fedora immacolato coi fiori, il volto imbiancato e il foulard fantasia al collo, un doppio irriconoscibile, con una scena di contagiosa tenerezza parlando dei rispettivi matrimoni (e un duetto da brividi per Blowin’ in the Wind). 

E TUTTA una corte di scrittori, James Levy, collaboratore per gran parte dei testi di Desire (l’album uscito a inizio 1976 che il tour doveva promuovere, nelle intenzioni dei dirigenti della Cbs) e Sam Shepard, che abbandona il suo ranch per fare il cronista della situazione e Larry Sloman, l’inviato del settimanale «Rolling Stone», fan-ragazzine come Sharon Stone che piange quando scopre che Just Like a Woman non è stata scritta apposta per lei, artisti di vario genere come i rocker Eric Andersen e Patti Smith e poi Roberta Flack, Gordon Lightfoot e tantissimi altri (persino Peter La Farge, l’autore nativo americano di La ballata di Ira Hayes, l’eroe di Iwo Jima).

OGNI ARTISTA aveva il suo spazio con un set acustico e uno con la band, Dylan chiudeva con un set di un’ora. Ginsberg fu progressivamente tagliato nel corso del tour, scendendo a cinque minuti di reading prima di trasformarsi in addetto all’amplificazione e al catering (insieme al compagno Peter Orlovsky) ma alcune scene madri lo vedono protagonista quando declama la sua Kaddish in una riunione di signore anziane ebree oppure insieme a Dylan (che suona una melodia struggente sul pianino giocattolo) sulla severa tomba di Jack Kerouac, sepolto a Lowell, «a 168 miglia dall’oceano». Il clima gioioso degli anni settanta coi suoi sogni sconclusionati attraversa la pellicola che farà palpitare tutti gli appassionati del folksinger di Duluth, al suo meglio nelle vibranti esecuzioni di Painting my Masterpiece, Romance in Durango o One More Cup of Coffee, ora da solo seduto con la chitarra sotto l’occhio di bue ora in una divertente e rumorosa jam-session.

Il senso di comunità, la smania delle giovani generazioni di ritrovarsi insieme, la voglia di impegnarsi per una giusta causa risalta nella fantastica Hurricane, la canzone scritta per Rubin Carter, il pugile afroamericano in corsa per il titolo mondiale dei pesi medi, «l’uomo che le autorità hanno accusato per qualcosa che non ha mai fatto» e hanno mandato in prigione per decine d’anni incolpandolo di omicidio con false testimonianze, un simbolo della giustizia marcia e opprimente coi neri.

OGGI BOB DYLAN ha 78 anni (e la Sony sta per pubblicare un box set di 14 cd e 148 canzoni su quel tour, già in parte documentato dal quinto volume della serie ufficiale dei bootleg di Dylan, The Bootleg Series Vol. 5: Bob Dylan Live 1975, The Rolling Thunder Revue). Cosa rimane di quell’esperienza? «Oggi direi niente di niente, al massimo polvere». Scorsese affida la conclusione a Ginsberg: «Noi fantasmi del Rolling Thunder Revue, abbiamo provato a guarire l’America, abbiamo scoperto qualche verità su noi stessi, abbiamo sperimentato un qualche tipo di unione o di comunità con vecchi amici che temevano di essersi perduti. Abbiate cura della vostra coscienza, dei vostri amici, del vostro lavoro. Andate e realizzatevi per l’eternità».