«La Spagna ha fatto le riforme e ora sta uscendo dalla crisi»: è la Buona Novella annunciata dalle classi dirigenti europee. Ieri è stato il turno del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble. In un’intervista a ]El País si è lanciato in lodi sperticate verso il Paese iberico: «E’ la prova che le riforme strutturali conducono a una crescita sostenibile di lungo periodo». Il premier conservatore Mariano Rajoy è il nuovo «allievo modello» che tutti dovrebbero imitare. Il pil è in crescita (la stima per quest’anno è +1,2%), e i dati sulla popolazione attiva mostrano una diminuzione dei disoccupati nel terzo trimestre dell’anno in corso: 195mila in meno, per un tasso che scende dello 0,8%, situandosi al 23,67%. Una cifra che resta spaventosa, «ma quel che conta è la tendenza positiva» dicono Rajoy e compagnia.

Ma è così vero che di «tendenza positiva» si tratti? Ci sono ragioni per dubitarne, come hanno evidenziato i sindacati, nel ruolo di «gufi e rosiconi» anche nella penisola iberica. La diminuzione del numero ufficiale dei senza lavoro – dicono – non corrisponde a un eguale aumento dell’occupazione: mancano all’appello circa 45 mila unità. Prima conclusione: in tanti hanno smesso di ingrossare le file davanti agli uffici di collocamento, preferendo la resa o l’emigrazione. Inoltre, l’aumento dell’impiego è strettamente collegato alla stagione estiva, favorevole alla crescita dei lavori stagionali, che nascono e muoiono nel giro di poco. Se c’è una tendenza da registrare, è proprio quella della precarizzazione: da luglio a settembre il totale dei salariati con contratto a tempo indeterminato è diminuito di 26mila unità; quello dei titolari di contratti a tempo determinato è aumentato di 120mila. E fra i minori di 25 anni la disoccupazione cresce.

Ma come? La «riforma» del mercato del lavoro targata Rajoy, varata nel 2012 e tanto apprezzata a Berlino, Francoforte e Bruxelles, non aveva tra i suoi obiettivi proprio l’aumento dell’impiego a tempo indeterminato e la fine dell’«apartheid» che costringeva i più giovani a disoccupazione e precariato? Sì, ma evidentemente qualcosa non torna. Eppure, l’esecutivo del Pp si era impegnato assai: diminuzione dell’indennità monetaria per licenziamento senza giusta causa (la reintegra già non c’era), raddoppio del periodo in cui un lavoratore è considerato in prova, incremento della mobilità dei lavoratori per le esigenze della produzione, via libera ai demansionamenti, possibilità di derogare ai contratti nazionali. Come ha recentemente scritto su sbilanciamoci.info un maestro del diritto del lavoro quale Umberto Romagnoli, «candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore (spagnolo, ndr) ha tracciato un modello regolativo che non pone limiti al dominio delle ragioni economiche, tecniche, organizzative e produttive evocate ad ogni piè sospinto come un mantra. Non si è nemmeno accorto che in questa maniera ha finito per decretare la morte del contratto che istituisce il rapporto di lavoro».

Il modello spagnolo, dunque, non garantisce i risultati celebrati dal finanzminister Schäuble e colleghi: i guai restano o s’aggravano. Il tasso di disoccupazione attuale è superiore a quello di tre anni fa, quando Rajoy subentrò al socialista Zapatero. E i dati sul pil non possono essere sbandierati come «ritorno della crescita», perché i livelli dell’economia pre-crisi sono lontani anni luce. Attualissimo, invece, è il dato delle famiglie in cui nemmeno un membro è occupato: ben 1 milione 800mila. Come se non bastasse – denunciano sempre i sindacati Comisiones obreras e Ugt – sono 700mila quelle dove non entra nemmeno un euro di sussidio di disoccupazione. Motivo per il quale da Comisiones (la confederazione maggiore) chiedono una cesura radicale con le politiche di austerità, investimenti per creare lavoro, ma anche l’introduzione di un reddito di base per chi si trova privo di ogni protezione sociale.