Il «grasso che cola». I «garantiti che nella crisi non sono stati licenziati». Per il premier Matteo Renzi e per il suo ministro Marianna Madia i dipendenti pubblici sono questi. Ma fra loro ci sono anche Cherubina, Davide e Sara. E quelle definizioni diventano beffarde, se non insultanti.

Ognuno rappresenta un settore – insegnamento, giustizia, sanità – dei servizi pubblici e ognuno di loro è precario, licenziato o licenziabile. Non sono nemmeno “casi limite” perché ognuno di loro ci tiene a dire che «ho conosciuto altri dipendenti pubblici che stanno peggio di me».

Nella Bologna (una volta) culla del welfare italiano lavora Cherubina. Come buona parte dei suoi coetanei – «se lo devi proprio scrivere, ho 39 anni» – lavora per una cooperativa sociale di servizi. «Sono diventate il contenitore per i tanti che provenivano dalle facoltà di Scienze dell’educazione, senza più concorsi pubblici non avevano alternative. Si diventa soci, si viene assunti a tempo indeterminato, ma si rimane precari». Nella mutazione genetica del welfare «al tempo dei tagli» e «degli appalti al ribasso», Cherubina lavora con i bambini disabili. «Un lavoro che mi piace e che mi appassiona, ma che faccio vivendo ogni giorno il dumping sociale che subisco: faccio 33 ore alla settimana e prendo 250 euro in meno dell’insegnante di sostegno che di ore ne fa solo 18 e spesso ha una professionalità minore della mia».

Non è una lotta fra poveri: «Io vorrei che ne prendesse anche di più, ma che io potessi avere le sue stesse tutele». Perché il paradosso di Cherubina è che «nonostante il tempo indeterminato, lavoro solo quando la scuola è aperta: 9 mesi l’anno». «L’amara realtà è che il Pd che governa Bologna ha usato in maniera strumentale le cooperative sociali per risparmiare soldi», accusa. Non essendo un tipo che molla facilmente, Cherubina sta lottando per cambiare le cose. «Come sindacato ci stiamo battendo per non essere più pagate a cottimo e perché il Comune unisca i servizi che le coop sociali fanno, permettendoci di lavorare 12 mesi ad esempio operando nei centri estivi». Il presente invece è una beffa: «Questo mese ci sono le elezioni regionali e il Comune ci toglie due giorni di lavoro e cento euro in busta paga».

Davide, 41enne romano, è invece la prova vivente che «le forme contrattuali non sono 46». «Io e i miei colleghi che lavoriamo al ministero della Giustizia siamo la 47esima: da 5 anni siamo in tirocinio formativo e veniamo pagati con rimborsi spese per la gestione degli atti giudiziari». Un tirocinio senza fine – «Per legge può durare solo 12 mesi, ma la norma viene aggirata cambiando l’istituzione che ci prende in carico: prima la Provincia, poi la Regione, da due anni il ministero» – che è stato sospeso solo per motivi di bilancio statale. «L’ultima legge di stabilità stanziava 15 milioni per il ministero della Giustizia, ma la metà sono spariti e dal primo ottobre non abbiamo più neanche il rimborso spese e sostanzialmente siamo stati licenziati».

Lui in più è l’emblema della mobilità, della ricollocazione, dell’addio al posto fisso tanto cari a Renzi e che stanno alla base del Jobs act. «Seguivo il dipartimento legale per la mia azienda. Nel 2009 la crisi ci ha tolto il lavoro e allora ci siamo buttati su questo progetto europeo di formazione. Prendevano 230 euro lordi per 30-36 ore di lavoro, ma almeno avevamo gli ammortizzatori sociali». Con il passaggio al ministero le cose sono perfino peggiorate. «Abbiamo dovuto firmare un impegno a non prendere altri impieghi. Lavoriamo alla cancelleria, a contatto con il pubblico, abbiamo password, badge come gli altri dipendenti. Ma veniamo pagati 10 euro l’ora e per giunta a 90 giorni». Neanche lui se la prende con i colleghi. «Al ministero sono sotto organico di 9 mila dipendenti, con la crisi il carico di lavoro è aumento moltissimo e hanno lo stipendio bloccato da 6 anni». Nonostante questo Davide, gli altri tirocinanti e dipendenti «normali» sembrano essere bravi. “Da quando siamo qua abbiamo già ricevuto quattro lettere di encomio dai presidenti delle corti di cassazione e di appello, peccato che mettendole in mezzo al pane non si possono mangiare».

Sara, 32 anni di Mondovì (Cuneo), è infine un tempo indeterminato vero e proprio: una infermiera nell’ospedale della sua città nel reparto di medicina generale. «Sono stata l’ultima assunta con l’ultimo concorso del 2008 e per questo mi sento fortunata anche se invece dovrebbe essere normale». La sua carriera però è andata di pari passo con il blocco dei rinnovi contrattuali e dunque lei, a differenza delle sue colleghe, in sei anni non ha mai avuto «aumenti salariali o scatti di anzianità». E nel frattempo l’ospedale è cambiato tanto. In peggio. «I turni sono sempre più pesanti, si arrivano a fare anche 22 giorni con uno solo di riposo. Fra notti, reperibilità si arriva ancora sui 1.500 euro al mese, uno stipendio che nonostante le responsabilità che abbiamo rimane buono solo perché in giro c’è una gran miseria».

L’altro cambiamento riguarda qualcosa di lontanissimo dallo stereotipo dell’infermiera che mette flebo e cateteri: la burocrazia. «Passiamo il tempo a far firmare moduli ai pazienti e ai parenti». Sara la chiama «medicina difensiva»: «I medici hanno paura delle denunce e delle cause e allora per ripararsi spesso prescrivono esami inutili: io lavoro in un reparto con molti anziani e spesso siamo ai limiti dell’accanimento terapeutico». In un contesto come questo la “passione” non può che sfiorire. «Con le mie colleghe siamo unite, un bel gruppo, però ormai si lavora sempre con meno entusiasmo anche perché vediamo che con i tagli il servizio che offriamo ai pazienti è sempre più scadente. Non certo per colpa nostra».