Fabio Ciaramelli: «La crisi del Covid sta mettendo in luce il nesso sempre più drammatico tra esclusione e disuguaglianze, che ha effetti distruttivi sulla tenuta stessa della democrazia, impossibilitata a sopravvivere senza la costruzione d’uno spazio pubblico e la condivisione d’un mondo comune in cui le opinioni abbiano un peso e le azioni un effetto. Già prima del Covid, Aldo Schiavone, nel suo libro intitolato semplicemente Eguaglianza, aveva ricondotto l’odierna proliferazione delle diseguaglianze alla perdita di centralità del lavoro industriale di massa. Il lockdown ha completato l’opera, producendo una vera e propria “pandemia sociale”, che sta riducendo il mondo comune a un unico mercato competitivo, in cui conta esclusivamente l’autoaffermazione e che ha come conseguenza l’emersione ancor più marcata del “lavoro povero”, puntiforme e destrutturato, sprovvisto di garanzie e incapace di produrre solidarietà».

Sarantis Thanopulos: «Quando il lavoro industriale di massa conservava la sua centralità esisteva un equilibrio tra valore dell’uso di un prodotto, il valore del lavoro che l’aveva realizzato e il suo valore di merce. Con la perdita della centralità dell’homo faber l’equilibrio è svanito. Oggi il valore di una merce è totalmente determinato dalle convenienze di un mercato oligopolistico in modo dissociato non solo dal suo costo di produzione ma anche dall’utilizzo per cui è stata fabbricata. L’uso eccitante o calmante delle cose prevale sulla loro utilizzazione appropriata ed è propriamente ciò che ha creato la “civiltà del consumo”. Il consumo delle cose, che “invecchiano” rapidamente, senza essere state davvero usate, è alimentato dall’eccessiva attenzione al bisogno, che conduce fatalmente a un vivere per scaricare le tensioni, distrarsi dall’esperienza. Chi si impadronisce del mercato “antidepressivo” (secondo la legge della prevalenza di chi ha meno scrupoli nell’accumulo di potere di vendita e nel distruggere la concorrenza) detta le sue regole istituendole come principi invisibili del governo del mondo. Il “lavoro povero” è una delle condizioni del suo dominio. La logica della concentrazione del potere economico e la mortificazione del lavoro, riducono l’espansione dei consumi, ma potenziando la presa psicologica/ideologica del consumismo sulle masse (che sempre di più si identificano con il principio che fa “funzionare le cose”), impediscono la consapevolezza sull’assoluta irrazionalità della “civiltà del consumo” e ci portano in un vicolo cieco».

Fabio Ciaramelli: «Per comprendere la posta in gioco della generalizzazione delle disuguaglianze e soprattutto per misurare i suoi effetti profondi sulla vita quotidiana delle persone non basta descriverne le configurazioni socio-economiche. Bisogna interrogarne il retroterra psico-antropologico. La società appare oggi dominata dal perseguimento dell’esclusione e dalla logica del sacrificio che quest’ultima inevitabilmente comporta. Mors tua vita mea sta diventando un imperativo categorico, come se l’unica condizione del benessere fosse la sua riduzione a prerogativa di pochi privilegiati, cosa che il discorso sociale dominante spaccia come inderogabile legge di natura, finendo col segare il ramo su cui si è seduti. Non solo perché tutto si regge sui consumi e neanche soltanto perché la legittimazione sociale della nostra forma di vita si fonda unicamente sulla speranza della loro espansione. Ma soprattutto perché perseguire sistematicamente l’esclusione sociale è un progetto demenziale e autodistruttivo».

Sarantis Thanopulos: «L’aspirazione a consumare sempre di più e “meglio”, che sorregge la produzione di beni da vendere come illusioni (il mercato della cocaina ispira silenziosamente il “mercato libero”), spinge verso l’appagamento materiale di bisogni psichici indotti. Il paradiso dei “narcotrafficanti”, il regno della diseguaglianza».