Uno spettacolo può letteralmente far «luce» su molti aspetti del mondo, anche quelli meno luminosi o in vista; a volte può arrivare a illuminare perfino gli antri più bui, gli angoli costituzionalmente più scuri ed incogniti. Come le gallerie di una miniera, o i processi che quella oscurità mette in moto in coloro che per lavoro la abitano e le danno senso.

È il risultato straordinario dell’esperienza che da qualche anno va conducendo Alfonso Santagata, con la sua insaziabile curiosità e la sua incrollabile fede nel teatro. Il mondo delle miniere riprende vita, capace di inquietare oggi più di ieri, grazie a un progetto concertato con la regione Toscana, che promette ancora maggiori sviluppi nei prossimi anni, sempre al passaggio tra l’estate e l’autunno.
Abbiamo imparato a conoscere in questi anni la tragedia senza soluzione (né volontà di trovarla da parte dei poteri costituiti) dei minatori sardi, che con la chiusura delle miniere nell’isola ha reso «disoccupate» gigantesche porzioni di territorio. Ma quel retaggio che istintivamente si tende ad allontanare come fosse un reperto degli albori della rivoluzione industriale, non riguarda in realtà solo la Sardegna. Tutti sanno delle Colline metallifere che hanno fatto dell’alta Maremma grossetana una «ricchezza» che lungo tutto il novecento (e fin dal secolo precedente) ha costituito un serbatoio di «progresso» e avanzamento tecnologico. Una vera eccellenza, per molti versi, se solo si ricorda l’affermazione sui mercati della Montedison con il Moplen, proteiforme materiale plastico oggi disseminato nelle nostre case, che da quei luoghi prendeva i suoi elementi originari (e da Gino Bramieri in Carosello la faccia accattivante e moderna del boom economico).

Per non parlare del fascino paesaggistico di quelle Colline, ancora oggi molto forte (o perfino stupefacente, come nei soffioni boraciferi di Larderello), e del suo collegamento a un mare meraviglioso, che pure di quella «industriosità» porta i segni: rotaie ormai rugginose, e percorsi aerei, fino alle strutture portuali di Piombino, e ai famigerati fanghi rossi di Scarlino, dove confluivano i residui di quelle lavorazioni fino a una ventina di anni fa, come ricorderanno i lettori del manifesto di buona memoria.
Ma c’è tutto un altro versante, quello più strettamente «umano», con i suoi altissimi prezzi pagati, che rischia di stingere e quasi svanire nel ricordo, saturato e cancellato dalla bolla illusoria che da un ventennio ci obnubila. Tutto quel progresso, quella industrializzazione così «magnifica», aveva la sua base e la sua forza nei minatori che nella profondità oscura di quelle Colline si inoltravano per portarne alla luce i preziosi metalli: da scavare, frantumare, estrarre, e poi portare alla luce, e quindi lavarli, setacciarli, e confezionarli per poi trasportarli nei luoghi di lavorazione. Minatori che lungo molti decenni erano arrivati da diverse regioni d’Italia, e si erano assoggettati a una vita durissima, per un guadagno misero rispetto al miraggio della plastica dell’avvenir. E che hanno pagato prezzi altissimi, alcuni con la stessa vita o con qualche menomazione permanente, quell’avventura metallifera condotta evidentemente in condizioni di scarsa sicurezza.

Periodicamente avveniva in quelle gallerie un’esplosione, che vi lasciava sepolti decine di minatori. Proteste, scioperi, occupazioni, ma dopo un po’ il colosso nazionale della chimica (o chi ne era in quel momento padrone) riusciva con ricatti , qualche forzatura, e la complicità delle autorità, a far riprendere il lavoro come prima. Almeno fino alla «disgrazia» successiva

C’è molto materiale che documenta quegli anni e l’intera avventura lunga un secolo (con la nera luce pubblicitaria che il ventennio fascista vi pompò da parte sua). Ci sono oggi gli approfondimenti urbanistici e paesaggistici, e quelli socioeconomici che ripercorrono la storia di una grande industria nazionale. C’è anche un libro di «racconti di miniera» raccolti e riscritti da Silvano Polvani. Com’era rossa la mia terra (Colordesoli editrice, 2010, 15 euro) che di quella epopea (davvero un western di una porzione d’Italia, ma a prevalente significato politico) racconta le persone e i rapporti, le famiglie e le disgrazie, le illusioni e l’entusiasmo, e naturalmente gli altissimi prezzi umani pagati.

Su questa strada si inerpica per i pozzi metalliferi Alfonso Santagata, ma ben cosciente di quanto stesse attorno e prima di quelle vite di minatori. Per seguire quei personaggi, colti con tenerezza e pudore, ma anche con entusiasmo e col riconoscimento a loro dovuto, il regista e autore spinge il pubblico in un percorso quasi iniziatico sui dislivelli dei pozzi da cui si estraeva la pirite, sulle alture di Ravi, appena fuori di Gavorrano. Scene semplici ed esplicite, che mostrano di quei minatori la coscienza politica e la condizione familiare, la solidarietà sindacale e i condizionamenti padronali, insomma la speranza e la mortificazione. Senza retorica e pietismi, Rivolta e pietas (come suona il titolo dello spettacolo, animato da un gruppo di attori generosi e convinti oltre che da musiche struggenti) sembra ripartire da quelle rivisitazioni dei Labdacidi (l’intera famiglia e ascendenza di Edipo) che negli anni Santagata ha fatto rivivere in luoghi diversissimi: la spiaggia di Castelporziano o le macerie di Gibellina terremotata, o le antiche terme romane di Chieti. Dove ogni volta e in ogni luogo si può scoprire una nuova assonanza di quel ciclo tragico. Sulle Colline metallifere avviene qualcosa di simile: scoperte e conoscenza, da parte del pubblico, che sempre di più ne vorrà sapere, negli anni a venire, in un collettivo scavo delle viscere della montagna dove si snoda la storia dell’intera Italia.