Otto milioni e 500 mila dipendenti in Italia sono al lavoro con il contratto scaduto. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) due lavoratori su tre continueranno a lavorare sulla base delle vecchie intese nel pubblico e nel privato. Una cifra così alta non si registrava dal 2008, il primo anno della crisi e riguarda i commessi, gli statali. gli edili, i dipendenti degli studi professionali, quelli della sanità privata. Tutti dovranno fare i conti con un reddito fermo da anni, proprio nei mesi successivi all’approvazione della legge di stabilità voluta dal vecchio governo Letta e approvata dalla maggioranza che regge quello Renzi che ha impoverito almeno 3 milioni di dipendenti pubblici. Complessivamente, dal 2010, la riduzione delle retribuzioni ‘pro capite’ in termini reali del pubblico impiego supera i 10 punti percentuali.

A febbraio sono state ratificate solo quattro intese che riguardano 500 mila lavoratori nel campo del tessile, della produzione di pelli e cuoio, del gas e dell’acqua, del turismo e delle strutture ricettive. Restano senza conclusione le trattative per 51 intese, di cui ben 15 riferibili al settore della pubblica amministrazione. All’inizio del 2014 sono inoltre decaduti gli accordi sul servizio di smaltimento dei rifiuti e della Rai. Nel limbo c’è anche il contratto del commercio che interessa 2 milioni di persone. Poi ci sono 650 mila edili, 260 mila addetti ai servizi di pulizia locale, 100 mila autoferrotramvieri, 400 mila lavoratori della sanità privata, 200 mila addetti degli studi professionali. Da solo il comparto della Pa conta 2,9 milioni di persone con il salario fermo a quello di sei o otto anni fa. L’attesa media per il rinnovo del contratto è di 24,5 mesi per i dipendenti, 11,8 mesi per chi lavora nel privato.

L’Istat segnala inoltre un lieve aumento delle retribuzioni contrattuali orario avvenuta a gennaio. Il piccolo balzo è dovuto ad uno scatto di miglioramento economico previsto nei contratti ancora in vigore. Le statistiche registrano anche l’allargamento della forbice tra i salari e l’inflazione, ferma a gennaio allo 0,7%.

Ciò che è interessante in quest analisi è la segnalazione da parte dell’Istat della variazione nulla per tutta la pubblica amministrazione a causa del blocco dei contratti rinnovato dal governo Letta fino alla fine del 2014. Uno dei modi per fare pagare l’austerità ad una grande fetta della popolazione, contribuendo a tenere il deficit sotto il 3% sul Pil, come preteso dalla Commissione Europea. Se l’Italia si attesterà sotto questa soglia anche quest’anno, il «merito» sarà anche degli statali che continueranno a lavorare con gli stessi salari di sei o otto anni fa.

Letta e Saccomanni, in realtà, hanno fatto ancora di più. Hanno definito le modalità di computo dell’indennità di vacanza contrattuale fino al 2017, congelandola ai valori 2013; hanno tagliato l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale a fine 2014; hanno limitato ancora di più il turn-over; hanno modificato al ribasso le regole per il riconoscimento degli straordinari. Per «risparmiare» e rientrare nei parametri dell’austerità lo Stato italiano chiede un contributo sostanzioso ai suoi dipendenti, rendendo permanente la negazione dei diritti acquisiti e delle retribuzioni dovute.

Una stangata vera e propria. I più colpiti sono i dipendenti della scuola che hanno lo stipendio più basso dei paesi Ocse. Se per gli altri il blocco dei contratti dura da 4 anni, per loro il 2014 sarà il quinto anno di sacrifici. Secondo la relazione al parlamento sul pubblico impiego della Corte dei conti il blocco dei contratti costerà 3.348 euro ai docenti, 6.380 ai dirigenti scolastici, 2.416 al personale Ata. A questo dovrà essere aggiunta la somma non ancora calcolata del congelamento dell’indennità di vacanza contrattuale. Il congelamento dei salari è accompagnato dal taglio del personale della PA, pari ad almeno 300 mila persone, avvenuto dal 2006 a oggi (dati Aran).

Questo è il risultato delle «riforme» fino ad oggi realizzate. Il personale ha perso centralità a favore di una generale perdita di qualità e efficienza imposte dalla spending review pemanente. Una tendenza che con ogni probabilità verrà confermata nel piano che sta preparando l’ex Fmi Carlo Cottarelli.