«Nipponista» è una parola che non si trova sui dizionari. Un tempo gli specialisti di studi giapponesi erano definiti yamatologi. Questo termine, sebbene tuttora caro ad alcuni, è sconosciuto ai più, e per uno specialista di Giappone presentarsi come yamatologo implica la necessità di dilungarsi in spiegazioni etimologiche. Qualcuno ha lanciato l’idea di adottare il termine «giapponista», un ricalco dell’inglese Japanologist, ma la proposta non ha attecchito. Devo confessare che questa incertezza lessicale non mi dispiace: essere studiosi privi di un nome ufficiale ha il suo fascino, ci rende simili ai ronin, quei samurai senza padrone che nel Giappone feudale si aggiravano armati di spada, liberi e avventurosi. E aiuta a ricordarci che il nostro campo di studi non ha connotati esattamente definiti. Un nipponista non può mai essere un esperto del Giappone nella sua totalità, visto che specialismo e completezza si escludono a vicenda.

Se già lo status del nipponista è così fluttuante, come si pone nei confronti della cultura giapponese chi abbia ad essa dedicato una consistente parte della sua vita, pur senza incanalare la propria frequentazione nei binari della ricerca specialistica? Il suo Giappone, conosciuto attraverso il filtro della traduzione, è lo stesso di chi ha attraversato lo specchio della conoscenza linguistica e adesso vive dall’altra parte?

Fusionalità contro acribia critica
A suscitare in me queste riflessioni e domande è stata la lettura del libro di Paolo Lagazzi Come libellule tra il vento e la quiete Fluttuando tra Oriente e Occidente (La vita felice, pp. 299, € 20,00), che raccoglie una serie di articoli su temi giapponesi scritti nell’arco di circa trent’anni, anche se l’interesse dell’autore per il mondo nipponico è ancora più antico. Una fedeltà così lunga e costante non può essere definita dilettantismo. È una vocazione che non si fonda sulla conoscenza dei testi originali, ma si esercita, oltre che sulla lettura di traduzioni, su esperienze personali, fatte di incontri e rapporti umani.

Come del resto è avvenuto per autori i cui contributi sul Giappone sono diventati punti di riferimento importanti: mi riferisco in particolare a Roland Barthes con il suo Impero dei segni e al Parise di L’eleganza è frigida. Il loro è stato un interesse episodico, ma comunque illuminato dall’attrazione per un mondo che sentivano sfuggire alla presa dei propri strumenti critici. Il fascino dell’inconoscibile si inscrive nell’esotismo, e questo rende i due libri appena nominati altrettanti esempi di un atteggiamento esotizzante.

Il caso di Lagazzi è diverso, in primo luogo perché il suo interesse non è occasionale ma durevole, e in secondo luogo perché non si misura con le categorie del conoscibile o dell’indecifrabile, ma si configura come un rapporto tra la propria sensibilità, e una dimensione geograficamente lontana ma emotivamente vicinissima. L’avversione di Lagazzi per le teorie letterarie e per una critica che giudica rigida e tortuosa, nell’isolarlo dal discorso teorico che si andava progressivamente affermando in Occidente, lo avvicina al Giappone, e favorisce ciò che egli cerca nel rapporto con la letteratura: non la distanza critica, ma una dimensione fusionale.

Tutto, nel suo rapporto con la cultura del Giappone, e in particolare con la poesia e lo Zen, parla di una ricerca di identificazione.
Se pure l’esotismo non è la sua cifra, Lagazzi ne apprezza l’elemento essenziale che, purificato dalle scorie del suo uso più corrotto e riportato alla sua origine di «stigma puro della differenza», diventa una strategia per sottrarsi all’ingranaggio di regole restrittive. È questa la chiave interpretativa con cui Lagazzi affronta la poesia di Penna, in alcune delle pagine più belle del libro, parte di una sezione dedicata alle correspondance tra i poeti italiani e il Giappone.

Lagazzi non è stato il primo a individuare nella poesia di Penna un elemento giapponese, ma la sua lettura è particolarmente efficace nel farne emergere l’affinità elettiva con la letteratura nipponica e, più in generale, orientale. È come se lo sguardo di Penna, lo stesso capace di scorgere la grazia nei luoghi più inattesi e meno canonici, avesse colto nel modo di essere giapponese l’essenza più profonda dell’esistere. Ed ecco che per Penna, corpo irriducibilmente estraneo alle leggi della società, questa intuizione diventa «il seme di un’intrepida, irriducibile leggerezza». Di notazioni come queste nel libro ne incontriamo molte, spesso espresse in immagini di grande bellezza.

Purtroppo talvolta accade che questo stato di grazia si appanni, e allora Lagazzi può cadere nel generico. Accade ad esempio quando vede nello Zorba di Kazantzakis non solo un maestro Zen, ma il compendio della sapienza universale, in cui Eraclito si fonde con i classici del Tao, Platone e Buddha, Plotino e Lao-Tse: da picchi altissimi, scivola in questi casi a sintesi sbrigative. L’intento di individuare un disegno comune che armonizzi i grandi insegnamenti del mondo rischia di annullarne le specificità, e quindi di appiattirle. Nel libro, il rapporto con lo Zen è importante come quello con la poesia, e i due temi si intrecciano spesso. Il percorso che ha portato Lagazzi a dedicarsi a questa branca del buddhismo, la più incline alla dissacrazione del pensiero intellettuale e allo smantellamento delle sovrastrutture mentali, del resto appartiene alla storia culturale del Novecento.

Zen e beat generation
Sappiamo bene, ad esempio, che un intero capitolo della letteratura americana, quello della beat generation, sarebbe impensabile senza l’influenza della cultura giapponese e dello Zen. Anche nel caso degli autori «beat», con l’eccezione di Gary Snyder che visse in Giappone, studiò la lingua e praticò a lungo in monasteri, si trattava di un rapporto basato, non su una conoscenza specialistica, ma su una sensibilità. Questa dote, unita a un intuito penetrante, permise ad alcuni di quegli scrittori una forte adesione ad alcuni valori della cultura giapponese.

I risultati artistici furono alterni. Kerouac compose haiku che dimostrano una scarsa comprensione di questo genere poetico, ma interi passaggi dei Vagabondi del Dharma fondono in modo mirabile la tradizione americana del vagabondaggio con l’arte di poeti itineranti giapponesi come Basho. Esempi simili bastano a dimostrare come ci siano zone, nella cultura giapponese, che una sensibilità libera dalle armi del rigore filologico riesce, a volte, a captare con maggiore immediatezza.