Anche per la critica letteraria il 2020 è stato un anno crudele. Ha mescolato ancora una volta ricordo e desiderio, lasciando il sapore amaro delle cose finite. Ubi sunt Andrea Battistini e Emilio Pasquini? Ubi sunt l’estro fantasioso e il rigore dimostrativo di Marco Santagata?

Alla sequenza di questi nomi si aggiunge ora il volto caro di Mario Lavagetto. Difficile parlare di lui. Ed è complicato restituire l’aristocrazia della sua raffinatissima intelligenza, che, al di là di letterature che appartenessero a ogni latitudine, sapeva ragionare di arte, di musica o di cinema. Ogni volta che capitava di telefonargli, si aveva timore di interrompere qualcosa: un pensiero, l’ascolto di un’opera, la visione di un film. Nel suo mondo, composto di eleganza autentica, si poteva accedere indossando ogni volta gli abiti migliori. Ed era grande gioia ascoltare i suoi giudizi, netti e risolutivi, sulla cultura, sulla politica, sull’università o sulla vita quotidiana.

Della grandezza dello studioso resta poco altro da dire. Critica è per lui una parola complessa. Evoca il contrario di un esercizio accademico. Alla maniera di George Steiner, Lavagetto interroga le vere presenze dei testi, scavando oltre le apparenze, cercando i loro punti di crisi, quando la superficie delle parole si incrina e torna a galla qualcosa che è nascosto dentro di loro. Mario ha seguito queste tracce dagli inizi dei suoi studi all’ultimo grande lavoro sul Decameron, pensato espressamente come «un omaggio a una pratica postuma (la critica letteraria) che ha sempre meno adepti».

Tra una sillaba e l’altra
Sono i piccoli indizi, che aprono porte insospettabili all’interpretazione. È la macchina dell’errore che si deve smontare, perché l’epifania di un senso si mostri e guidi lo sguardo al di là dell’apparenza. Proprio nella premessa alla Macchina dell’errore, si trova l’invito esplicito ad ascoltare «tutti gli echi di quella che Franz Kafka definiva una ‘controvoce’ e che si incunea tra una sillaba e l’altra, si annida tra le parole e condiziona il regime semantico delle pagine e dei libri».

Questa intelligenza dei testi non tollera nessun dogmatismo. I precetti di qualunque metodologia possono diventare gabbie d’acciaio, che impediscono l’accesso e soffocano il respiro. Il peso delle fonti è un intralcio alla vitalità prepotente delle opere. Se mai, dovrà essere ciascuna di loro a produrre le fonti che essa convoca e mette in gioco. La lettura non è mai un gesto collaudato, che si serve di protocolli costanti. Al contrario, è efficace se sa essere flessibile, immaginando i punti di vista adeguati al caso che ha dinanzi. Come accade in uno dei più bei racconti di Henry James, La cifra nel tappeto, assai caro a Mario, chi osserva deve essere sufficientemente elastico da trovare il punto di vista che restituisca il senso all’insieme.

Se la storia è come un rogo, ha scritto Walter Benjamin, per il critico il fuoco che si leva custodisce il segreto della vita. Egli «cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto». Mario Lavagetto ha scrutato, con la qualità di un interprete impareggiabile, la forma di quella fiamma. Ne ha osservato le sfumature, le iridescenze, i guizzi.

Ricordando Giancarlo Mazzacurati, che è stato compagno di grandi avventure intellettuali, Lavagetto, sulla scia di Thibaudet, scrisse che «quello che differenzia un “grande critico” da un critico mediocre è che il primo è capace di animare le idee, di farle lievitare come se respirassero, di dare loro slancio ora con l’eloquenza, ora con lo spirito, ora con lo stile, mentre per l’altro quelle stesse idee restano “fredde e tecniche”». Di fronte alle tante pagine che restano si può solo ripetere per lui quello che il maestro di Mario, Giacomo Debenedetti, avrebbe potuto dire: «questa, perdio, è grande critica».