Salta tutto. Nessun nuovo esame in Consiglio dei ministri, oggi, delle bozze di accordo con le tre regioni capofila delle autonomie differenziate. Non ci sarà la firma definitiva delle tre intese, destinate a diventare testi di legge. Il vertice di ieri sera a palazzo Chigi sul nodo delle autonomie si è risolto in un nulla di fatto, nemmeno una vittoria di immagine per la Lega. Salvini non può  celebrare la «partenza ufficiale» della sua riforma bandiera. Malgrado il leader leghista avesse annunciato già al mattino, vertice o non vertice: «Il testo base è pronto per il Consiglio dei ministri». A mezzanotte fonti della Lega fanno sapere che «sul l’autonomia 5 stelle fanno muro e si nascondo dietro ai burocrati. È stata un’ennesima riunione a vuoto. Chiedono tempo e chiedono un incontro il prossimo mercoledì. Nessun nodo risolto. Bloccano qualsiasi iniziativa».

I 5 Stelle non hanno voluto subire l’accelerazione, anzi hanno rilanciato su un altro tavolo alla ricerca di un titolo ad effetto: «revocare la concessione ad Autostrade», come se il ministro Toninelli non ci stesse tentando, invano, da un anno. E poi i grillini sottolineano quanto il percorso dell’autonomia sia ancora lungo. Infatti, la conclusione di ieri è stata che bisogna approfondire il dossier con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ma sono mesi che i problemi veri non sono tra lo stato e le regioni – le bozze di accordo sono pronte da febbraio – bensì all’interno del governo. Dove i 5S mantengono tutte le loro contrarietà sia nel merito che nel metodo della riforma. E frenano un po’.
Nel merito si tratta delle ormai consolidate preoccupazioni per la scuola e la sanità, oltre al fatto che lo stesso – per altri versi detestato – ministro Tria ha chiarito che non sarà possibile un riequilibrio delle risorse a costo zero. Quanto al metodo, per Salvini il coinvolgimento del parlamento dovrebbe limitarsi a un’informativa di Conte, in aula o meglio ancora davanti alle due commissioni bicamerali che si occupano di regioni. Per i 5 Stelle invece c’è bisogno di acquisire il parere di tutte le commissioni che si occupano delle 23 materie oggetto di devoluzione.

L’incertezza riguarda la fase precedente alla formazione delle intese definitive e dunque del testo di legge. C’è poi una fase certa che partirebbe solo dopo l’approvazione del parlamento, a maggioranza qualificata, della legge che recepisce l’intesa a due tra lo stato e ognuna della tre regioni capofila dell’autonomia differenziata. Questa fase prevede che entro trenta giorni dall’approvazione della legge di ratifica, il governo provveda a nominare una commissione paritetica, composta da un numero di membri scelti dalla ministra per gli affari regionali – e qui i 5 Stelle temono che la leghista Erika Stefani voglia fare da sola – e dalla regione. Questa commissione ha tutti i poteri, tant’è che molti giuristi – anche nel corso di audizioni in parlamento – hanno paventato una delega da parte delle camere di funzioni quasi costituzionali a questi organismi tecnici e non elettivi.

In quattro mesi infatti le commissioni paritarie, sulla base delle tabelle del Mef che individueranno con il criterio del costo storico (dunque chi ha speso di più avrà di più) la quota regionale per ciascuna delle funzioni alla quale lo stato centrale rinuncerà, stabiliranno quali risorse «finanziarie, umane e strumentali» devolvere alle regioni. Le risorse finanziarie resteranno sul territorio nella forma della partecipazione al gettito Irpef. Quanto stabilito da queste commissioni paritetiche sarà poi trasfuso in una serie di decreti del presidente del Consiglio dei ministri a quel punto assai difficilmente modificabili, perché i vari pareri previsti dalla procedura – quelli della conferenza unificata stato-regioni, dei sindacati maggiormente rappresentativi e della commissione bicamerale per le questioni regionali – sono puramente consultivi. E nemmeno obbligatori.