Good Fences Make Good Neighbors, buone recinzioni fanno buoni vicini. Tratto da una poesia di Robert Frost, è il titolo (ironico) dell’ installazione multipla (declinata in 300 location sparse per tutta New York) che Ai Wei Wei ha creato per il quarantesimo anniversario dell’organizzazione Public Art Fund, e che è stata inaugurata la settimana scorsa. Come il recente documentario dell’artista cinese, Human Flow, anche Fences è una riflessione sui confini, gli sbarramenti, i movimenti migratori. È nata da uno spunto simile, anche una delle tante iniziative della «resistenza», The Federation, un’idea dal titolo quasi volutamente startrekkiano lanciata da Laurie Anderson e Tanya Selvaratnam.

Covata, a partire dalla primavera, in un loft del West Village, durante una serie di incontri di sapore quasi carbonaro, a cui partecipavano artisti, curatori, rappresentanti di istituzioni culturali internazionali, attivisti già al lavoro sulle elezioni del Midterm, giovanissimi reduci delle campagne di Bernie Sanders e Hillary Clinton e, in un paio di occasioni, anche il procuratore dello stato di New York Eric Schneiderman (preoccupato che, rispetto alle comunità scientifica e giudiziaria, quella artistica non si stia muovendo a sufficienza contro le implicazioni delle politiche trumpiste), The Federation (www.wearethefederation.org) ha avuto la sua presentazione ufficiale durante un panel tenutosi l’11 ottobre al New York Film Festival. «Ero a Berlino, in marzo, e abbiamo cominciato a pensare cosa si poteva fare per tenere aperte le frontiere della cultura e dell’arte in un momento in cui i confini geografici diventano più difficili da attraversare. La prima idea era quella di un incoraggiare ulteriormente il rapporto tra le città, il forte legame che esiste tra i centri urbani internazionali che costituiscono il circuito in cui si muovono artisti, musicisti, ballerini, registi. Rafforzare quei contatti e riflettere le implicazioni che le chiusure delle frontiere hanno sul nostro lavoro», ha spiegato Laurie Anderson.

«Non sapevamo bene cosa ne sarebbe uscito, ed è ancore oggi un work in progress», ha continuato Selvaratman «l’obbiettivo è di costruire in network di progammers e attivisti che diano visibilità a questi temi attraverso manifestazioni culturali di tutti i tipi. E anche quello di fornire, a partire dal nostro sito, un deposito di risorse a cui artisti, specialmente quelli dei paesi presi di mira dal bando, possono attingere». Tra gli obbiettivi di The Federation, espressi nel manifesto, mantenere liberi i confini culturali; promuovere la libertà di espressione; lottare contro i tagli ai finanziamenti delle arti; usare le arti come catalizzatori di empatia e pensiero critico tra comunità diverse; riconoscere a necessità di approcci diversi per sviluppare questi principi.

All’organizzazione aderiscono gruppi e individui diversi tra di loro come il Public Theater, il Film Forum, la Brooklyn Public Library, Spotify, l’organizzazione letteraria PEN America, TUMBLR, gli artisti Joan Jonas, Shirin Neshat, la Film Society del Lincoln Center…. Il primo appuntamento previsto per un’azione collettiva, in diversi stati Usa – dove The Federation sta sviluppando un network- ma anche all’estero, è un Art Action Day, fissato per il 20 gennaio 2018, che è l’anniversario dell’inaugurazione di Trump. «L’anno scorso, quel giorno alcuni musei hanno deciso di rimanere chiusi in segno di protesta», ricorda Selvaratnam, «cosa su cui non siamo d’accordo. L’arte deve essere proattiva, gioiosa, farsi sentire. Anche per quello abbiamo scelto quella data simbolica». «E speriamo», ha concluso Laurie Anderson, prima di essere interrotta dall’ingresso a sorpresa in scena del Resistence Revival Chorus (il coro che fa capo un gruppo di attiviste che, a partire dalla Women March, ha organizzato una serie di eventi musical di protesta), «che sarà veramente caotico».

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