Il nobile esperimento mentale dell’ucronìa deve probabilmente la sua invenzione, almeno per quanto riguarda la letteratura, a Tito Livio, che nell’Ab urbe condita, dopo aver sottolineato di non essersi discostato «da una trattazione ordinata degli eventi», e di aver evitato con ogni mezzo «il cercare motivi di piacevole svago per i lettori e un po’ di riposo per la mia mente infarcendo questa ricerca storica con amene digressioni», si lascia andare alla contemplazione di una storia plausibile ma inesistente: «non mi spiace ora valutare quale sarebbe stata la sorte della potenza romana se si fosse scontrata con Alessandro» (IX,17).

Il moderno esercizio letterario del What If, suggellato dalla definizione di Charles Renouvier nel suo Uchronie – saggio di filosofia della Storia pubblicato nel 1857 in opposizione al determinismo storico ancora in voga in Europa alla fine XIX secolo – ha trovato nella variante novecentesca della distopia la sua logica prosecuzione, premiata con un successo derivato più da questioni politiche (e editoriali) che squisitamente letterarie. Così, la dimensione filosofica soggiacente al topos dei «mondi possibili» ha lasciato il passo a cupi scenari spesso à la page (con luminose eccezioni, Philip Dick su tutti), tra atmosfere cyberpunk e nazisti sparpagliati un po’ a caso nel tempo e nello spazio.

Recuperando, in parte, l’ormai desueto spirito del conte philosophique che informa l’alternativa alla storia, Laurent Binet scrive il suo nuovo romanzo, Civilizzazioni (nella bella traduzione di Anna Maria Lorusso, resa impervia dalle interpolazioni di frammenti presi da testi cinque e seicenteschi, La nave di Teseo, pp. 364, € 19,00), terza prova narrativa dell’autore francese, che già all’esordio di dieci anni fa, HHhH, si confrontava con un fatto storico. Allora, la tensione del romanzo mirava a una «trattazione ordinata degli eventi», benché il narratore si facesse spesso avanti per mettere in discussione la possibilità di restituire in un resoconto lineare vicende complesse e spesso non direttamente verificabili (in quel caso, l’operazione militare che portò all’assassinio di un gerarca nazista in Cecoslovacchia). Ora, dopo il passaggio più storicamente disimpegnato, anzi apertamente ludico della Settima funzione del linguaggio, l’ultimo romanzo sembra approdare a una sintesi coerente dei due precedenti lavori: del primo ritrova e rielabora le riflessioni sul rapporto tra narrativa e storiografia, del secondo mantiene il gusto citazionista e la potente capacità affabulatoria.

Good Bye, Columbus
Civilizzazioni si presenta come il frutto di un «cronachista» impegnato a resocontare i precedenti dell’invasione dell’Europa da parte degli Inca, guidati per l’occasione da re Atahualpa (la premessa è che Colombo abbia miseramente fallito nella scoperta delle Americhe e sia piuttosto finito prigioniero, e poi vittima, delle popolazioni indigene; la premessa alla premessa è che quelle stesse popolazioni non siano affatto indigene, e che provengano piuttosto da una commistione tra popoli, alcuni dei quali discese dai ghiacci dell’estremo nord).

Sbarcati in una Lisbona devastata dal grande terremoto del gennaio 1531 – qui comincia la serie di eventi storici reali le cui conseguenze vengono ribaltate da Binet in favore della sua «versione» – i seguaci di Atahualpa avanzano verso la Castiglia senza troppi problemi, e intraprendono una campagna sanguinosa destinata a sconvolgere le sorti della storia europea.

Rivale dell’Inca è naturalmente Carlo V, sul cui impero ben presto il sole tramonta: eccome. Il principale snodo narrativo e concettuale di tutto il romanzo arriva quando ormai Atahualpa si ritrova imperatore e la domanda che sconvolge il Vecchio continente suona così: in quale dio crede costui? Certo non in quel «dio inchiodato» in nome del quale gli Inca hanno visto compiersi nefandezze e ipocrisie di ogni genere, soprattutto in una Spagna dove uomini addobbati di ogni ricchezza calpestano chi non ha neanche vestiti per coprirsi.

Mentre Erasmo e altri predicatori si affannano a costruire teorie che tengano insieme il cattolicesimo e il paganesimo degli Inca (non sarà il dio del Sole una allegoria dello Spirito Santo?), il colpo di scena arriva insperato: sotto l’Impero Inca ciascuno è libero di professare la propria religione. La rivoluzione del Sole incontra una Mitteleuropa in pieno fermento luterano, ed è destino che il successivo confronto di Atahualpa sia proprio con l’interprete della Riforma protestante e con il suo più acerrimo nemico, il banchiere Fugger.

Indugiando un po’ troppo nei dialoghi impossibili tra Lutero e gli Inca, tra Erasmo e Tommaso Moro, tra Montaigne e Cervantes (che ha combattuto a Lepanto, sì, ma in un ampio schieramento contro gli «adoratori del Sole», fianco a fianco con El Greco), Binet cade in quella trappola che con grande accortezza gli era riuscito fino ad ora di evitare. La sua scommessa iniziale era stata, infatti, rendere l’esposizione dei fatti avvincente pur adottando nei confronti della «Storia» uno sguardo aereo, e nascondendosi talvolta dietro il punto di vista dell’invasore – artificio con cui gli riesce perfettamente di innescare il congegno «pedagogico» del romanzo-specchio. Per quasi tutto lo sviluppo della trama, Binet si tiene alla larga dal rischio parodico-fumettistico intrinseco alla rappresentazione posticcia di protagonisti della Storia; ma poi, alle ultime battute, il tentativo di manipolare impercettibilmente le fonti per adattare la credibilità dei personaggi storici a quelli romanzeschi non è efficace.

Un’opera aperta
Mettendo in scena gli stessi porotagonisti, nel dramma del 1970 Martin Lutero & Tommaso Münzer Dieter Forte si serviva di soli atti documentali per far emergere il monaco di Wittenberg in tutto il suo sfrenato fanatismo; e il commento del drammaturgo tedesco a conclusione della sua pièce si adatta perfettamente al romanzo di Binet: «Quest’opera non ha protagonisti. Mostra un processo storico».

Fin quando si sforza di stare ai patti, dunque, Civilizzazioni rivela un umorismo e una intelligenza ammirevoli, sfruttando con misura molti degli spunti che le circostanze romanzesche offrono al narratore (le opere di Tiziano che immortalano le gesta dell’Inca, o i versi dalle surrettizie Incaidi, ispirati dalle battaglie vinte dai nuovi conquistatori, per esempio).

Quasi ovvio il suo modello di romanzo filosofico-pedagogico: le prime opere narrative di Umberto Eco, che non a caso figurava come uno dei personaggi principali della Settima funzione. Ora, ancora più compiutamente di quanto già non avesse tentato nei precedenti lavori, in Civilizzazioni Binet propone un romanzo «opera aperta», suggerendo da un lato l’idea di una evoluzione autoriale ancora in corso, e dall’altro offrendo una performance romanzesca felicemente finalizzata al piacere del testo.