Una manciata di film attraversati da una speciale sensibilità capace di aggiungere il proprio tocco al ritratto della Francia iniziato prima di lui da autori come Jean Renoir, Jean Eustache, Maurice Pialat, Eric Rohmer. È un’opera scarna quella di Laurent Achard, regista francese mancato qualche giorno fa a cinquantanove anni – era nato il 17 aprile del 1964 – che nella sua ostinazione costruisce un mondo, pieno di paure e di ferite restituite sempre con delicatezza. Negli articoli su di lui comparsi sulla stampa francese la definizione che ricorre nel racconto del suo cinema è quella di «un eterno marginale» – suo malgrado, nonostante la potenza delle sue immagini e qualche premio, come il Jean Vigo vinto da Le dernier des fous (2006), ispirato al romanzo dello scrittore canadese Timothy Findley. La disgregazione di una famiglia contadina in una soffocante campagna francese viene restituita dal punto di vista di un bambino che vi assiste impotente.

E L’INFANZIA nei film di Achard è centrale: luogo di paure primordiali e di sconvolgimenti come accade in Le dernier des fous o in Plus qu’hier moins que demain (1998) e soprattutto in La Peur, petit chasseur (2004), il cortometraggio che lo ha affermato. Un unico piano, meno di dieci minuti, un bambino che guarda la sua casa. Vediamo con lui il cielo, la campagna, la madre che stende il bucato. Il cane annoiato. Il bimbo sente, il padre in casa che urla, e la madre che a sua volta entra in casa, e le botte che la colpiscono. E rimane lì. Sono i film di Achard dolorosi senza mai spettacolarizzare questo dolore, campi di battaglia delle vite che continuano a parlare, nonostante tutto, a essere nell’aria, nei cieli, in una campagna senza idilli, come appunto quella in cui si muove il ragazzino di Le dernier des fous. Universi i suoi nei quali neppure il cinema è più un rifugio, anzi ha perduto la sua natura di protezione. O è forse il rito che si è capovolto e lascia affiorare qualcosa di sé segreto e tormentato come ci mostra il personaggio di Derniéere Séance (2011), un uomo che ha voluto salvare la sala del suo quartiere destinata alla chiusura, a cui dedica la propria esistenza, rivelando un altro se stesso quando la saracinesca si chiude. È sempre questione di punti di vista, del posto del regista: «Da dove guardo, da dove costruisco (e a volte decostruisco) il mondo?», è la domanda che lo unisce a Vecchiali nel «ritratto» che Achard gli ha dedicato (Un, parfoix deux, 2016). Una visione delle immagini e della vita.