«Nella classifica del cinema italiano siamo il primo film del 2022 sia per la partecipazione ai Festival (143) che per i premi ricevuti (45), siamo sopra Ennio di Tornatore, per capirci» annuncia appagata la produttrice Nadia Trevisan al Cinemazero di Pordenone. E aggiunge: «Il film è partito da Cannes ed è poi andato dappertutto: in Asia, in America, in tutti i principali Festival europei. Quando chiamavo al telefono Laura, che lo seguiva, mi rispondeva trafelata “Sono all’aeroporto” e io le chiedevo “Ma quale?”» Il film è Piccolo corpo, Laura è Samani, la sua regista, e i premi includono il David di Donatello come Miglior esordio alla regia, il premio come Miglior rivelazione degli European Film Awards, considerati gli Oscar europei del cinema, e quello come Miglior film italiano del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Laura Samani, triestina di 33 anni, si è laureata a Pisa in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione e diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia col corto La santa che dorme che ha partecipato al Festival di Cannes 2016, dove ha incontrato Nadia Trevisan che poi avrebbe prodotto Piccolo corpo.

  In un’isoletta del Nordest a inizio del secolo scorso, Agata (l’esordiente Celeste Cescutti) partorisce una bambina morta, la cui anima è condannata al Limbo. La giovane madre si ribella alla legge della religione e del padre a cui la comunità obbedisce. Saputo di un santuario sui monti della Carnia dove i neonati morti vengono risvegliati per un solo respiro, giusto il tempo che basta per battezzarli e salvare la loro anima, si lega la scatola che contiene il piccolo corpo di sua figlia sulle spalle e si mette in viaggio. Lungo la strada incontra Lince (Ondina Quadri), altra creatura ribelle che è uomo e donna e animale, e che si propone di accompagnarla. Questa la trama del film, che racconta il loro viaggio consapevole e inconsapevole, reale e magico, alla ricerca del miracolo.

Qual è la storia del film, Laura?
Non è che la questione del Limbo mi tenesse sveglia la notte: appena parli di anima si pensa che tu sia credente, ma io non lo sono. Quello che mi interessava molto è il tema del distacco da ciò che si ama. Un rinomato ristoratore del Friuli Venezia Giulia, Aldo Morassutti, scomparso lo scorso anno, dopo aver visto La santa che dorme mi ha parlato di Trava nella (immaginaria) Val Dolais. Ho scoperto l’esistenza dei santuari del respiro o a repit o della piuma – perché si usava una piuma per verificare il respiro – in tutto l’arco alpino, solo in Francia sono più di 200. Se ne hanno testimonianze già dall’anno 1000, ma la piena espansione risale al 1500. Ora hanno perso la funzione originaria perché dal 2007 Ratzinger ha abolito il Limbo. Nei libri dei santuari, antesignani dell’anagrafe, oltre alla registrazione delle anime, dei battesimi, dei matrimoni, dei funerali, c’è anche quella dei miracoli richiesti e ottenuti, che non sempre coincidevano. Questi miracoli sono considerati blasfemi dalla Chiesa cattolica: la resurrezione è il miracolo dei miracoli, l’ultimo compiuto da Gesù. Chiederlo va contro la volontà di Dio e infatti non ci si rivolgeva a lui o ai santi, ma alla Madonna, madre che ha perso il figlio, l’unica che può capire e forse intercedere. Nella scena del santuario non ci sono croci, il rito è guidato da un’eremita donna e non si usano le formule cattoliche, il segno della croce, il rosario, l’acqua e l’olio, bensì la saliva, come faceva Gesù. Ho scritto il soggetto e coinvolto nella sceneggiatura Elisa Dondi e Marco Borromei – che erano al Centro Sperimentale con me e con cui avevamo scritto La santa che dorme. Abbiamo fatto laboratori di sviluppo anche in contesto internazionale: siamo stati selezionati per 2 anni consecutivi al TorinoFilmLab. Abbiamo iniziato a girare nel 2020 e dopo 10 giorni di riprese si è fermato tutto per il primo lockdown. Le 5 settimane di riprese si sono svolte in un anno intero. Una volta finito il film è stato selezionato per Cannes e per gli altri festival e ha avuto tanti riconoscimenti, che prendo come regali e non sto a contare. Mi ha molto commossa il Premio Suso Cecchi D’amico per la Sceneggiatura perché vedo Suso – una delle poche donne in un mondo di uomini che ha scritto alcuni dei film più belli del cinema italiano – come una «nume tutelare» del nostro lavoro.

Laura Samani, regista. Roma, 2023 (ph. Laura Salvinelli)

In tanti hanno scritto che Piccolo corpo è girato come un documentario ma non lo è. È un film, e l’uso della macchina a mano molto vicina ai personaggi, della luce naturale, della presa diretta, di attori quasi tutti non professionisti che recitano in dialetto, non fa che incarnare la magia di quella che definisci una «favola cruda». Sei d’accordo?
Sì, non è affatto girato come un documentario ma con architetture molto specifiche, basta pensare alla scena d’apertura che è un unico piano sequenza per niente improvvisato. È una ricostruzione con naturalezza apparente di una finzione. L’equilibrio fra il realismo e la magia si è trovato facendolo, ed è dovuto anche ai limiti dei mezzi a disposizione che in questo caso hanno aiutato. Nel bilanciamento tra reale e magico la mia unica certezza è che non è una storia epica: io non auguro a nessuno di essere come Agata che ha la qualità della caparbietà, ma il difetto di non capire quando lasciar andare. L’eroina non elabora il lutto, sposta sua figlia dalla pancia alle spalle. Appartiene al mito, ha un’intelligenza fortissima ma manca di introspezione psicologica al di là del rifiuto del distacco, è un corpo aggrappato alla scatola che contiene la neonata e non vede nient’altro.

Perché definisci politica la scelta della lingua friulana e dei dialetti?
Abbiamo iniziato il percorso del film con un’idea filologica della lingua dovuta all’ambientazione storica, con la scelta dei tanti dialetti locali e del friulano – che è una lingua perché ha la sua grammatica scritta. Poi nell’arco della ricerca abbiamo lasciato la filologia in virtù di una scelta politica. Durante il fascismo era mandatorio parlare in italiano, soprattutto nelle zone di confine dove la repressione linguistica e identitaria è stata fatta col sangue. In Friuli Venezia Giulia c’era l’influenza del tedesco e dello slavo. La santa che dorme è girato tutto in nediško, il dialetto sloveno delle Valli del Natisone. Quindi, abbiamo deciso di non imporre la lingua e di far parlare a ognuno quella in cui pensa e sogna, a parte Ondina Quadri, cresciuta a Roma, e Celeste Cescutti, cittadina di Udine che non parla friulano. Per altro, da Bologna in giù nessuno nota le differenze.

Il potere del nome è centrale sia nella religione che nella psicanalisi. La tua «favola cruda» è ambientata in un mondo arcaico in cui solo la religione poteva aiutare a gestire le paure, le ansie e i desideri. Ma sembri molto più interessata alla psicanalisi e allo studio dei miti. È così?
Sì, la psicanalisi mi interessa tantissimo e il film è ambientato nel periodo in cui Freud iniziava a pubblicare il suo lavoro. Mi sono formata con lo studio delle funzioni nelle fiabe russe di Vladimir Propp e dello schema del viaggio dell’Eroe di Cristopher Vogler. Il nostro punto di riferimento per il potere del nome è l’incipit del Vangelo di San Giovanni: «In principio era il Verbo». È una questione direi ontologica più che cattolica: se non hai un nome non esisti. Altro riferimento è Il libro rosso di Jung. E il mito di Antigone per il tema della giusta sepoltura. Tanto del successo di Piccolo corpo, e non parlo dei premi ma di come arriva alle persone, è dovuto allo sfondamento tra il set e la narrazione cinematografa. Ho chiesto alle protagoniste di scegliere il nome della bambina e non dirlo. Quello di Celeste rimane un suo segreto, quello di Ondina l’abbiamo saputo mentre giravamo la scena, ed è perfetto.

Il tuo film è tutto al femminile ma non parla solo alle donne. Qual è la tua esperienza di regista donna in un cinema che è molto cambiato ma non del tutto da quando era fatto da soli uomini?
L’esperienza dipende molto anche dall’educazione ricevuta. Io e mia sorella minore, grazie ai miei genitori, siamo cresciute senza sentire limiti al nostro desiderio. Mi sono accorta tardi che non sempre è semplice essere donna, che per esempio un atteggiamento assertivo come il mio se viene da un maschio è un leader, se da una femmina è una stronza. A me interessa circondarmi di persone rispettose degli altri, a prescindere dal loro genere. Credo che proviamo le stesse cose, con una sola grossa differenza che sarà centrale nel prossimo film: il desiderio. Desideriamo le stesse cose, ma l’espressione del desiderio è diversa: al maschio si permette con più libertà di tentare di realizzare il suo desiderio. Il mondo del cinema sta cambiando anche grazie al #MeToo, ma c’è ancora tanto lavoro da fare.

Hai già accennato al prossimo film che sarà girato nel 2024, ambientato a Trieste nell’ultimo anno di una scuola superiore, in cui ci sarà molto musica (ma non sarà un musical, com’è stato scritto) e di cui parleremo quando lo avremo visto. Su cosa stai lavorando ora?
Ora siamo nel momento che preferisco, quello di apertura, in cui le cose sono ancora di creta informe: ci stiamo preparando, con la sceneggiatrice Elisa Dondi e la stessa produzione Nefertiti Film, alla ricerca delle location e delle facce e delle collaborazioni. Inoltre, affianco il mio lavoro di regista a quello di educatrice in diversi contesti. Non penso che il cinema si possa proprio insegnare ma mi piace condividere gli strumenti che ho acquisito, è mettere in giro dell’energia che poi ritorna. All’inizio, non credendoci fino in fondo, dicevo che il cinema è tutta la mia vita. Ho scoperto che non è assolutamente vero e non mi interessa fare un film per fare un film. È un pretesto per entrare in relazione con le persone e scoprire cose nuove e me attraverso le cose. È un circolo virtuoso, una cura infinita.