Laura Samani, regista e sceneggiatrice triestina, è nota per Piccolo corpo, David di Donatello 2022 come migliore regista esordiente. Nel film sviluppa tematiche già nel corto La santa che dorme, con cui si è diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia. Porta avanti un cinema personale che affonda nelle tradizioni ancestrali della sua terra attraversando il concetto di sacro e il ruolo purificatore dei principi naturali, secondo una prospettiva femminile. Laura Samani sarà la protagonista di Campolungo, sezione dello ShorTS International Film Festival (Trieste, 29 giugno – 6 luglio 2024), a cura di Massimo Causo e Beatrice Fiorentino, incentrata su giovani autori e autrici di corti come di lungometraggi.

La regista è alle prese con un nuovo progetto: «Sto lavorando a un liberissimo adattamento di Un anno di scuola di Giani Stuparich, la storia di un gruppo di amici, tutti maschi, all’ultimo anno delle superiori. Si aggiunge una ragazza, il che ovviamente stravolge tutti gli equilibri. L’ultimo anno di scuola è anche l’ultimo momento in cui hai dei nemici funzionali, cioè gli adulti. Poi diventi adulto a tua volta. Sarà tutto ambientato a Trieste.

Come mai il tuo cinema è così legato al tuo territorio?
È la prima volta in realtà che giro a Trieste, nonostante io sia nata e cresciuta in questa città fino alla fine delle scuole, poi mi sono trasferita a Pisa e a Roma. Forse si tratta di una sensazione di ritorno possibile. Quando ero a Roma, ho girato il corto di diploma, La santa che dorme, ambientato nelle valli del Natisone. Ho sentito la necessità di tornare. È una cosa più inconscia, forse perché ero lontana negli anni in cui stavo imparando a raccontare tramite immagini, suoni ed emozioni.

Si tratta di zona di confine. È per questo che nei tuoi film c’è questo lavoro sulla lingua?
Sono cresciuta in una città in cui il dialetto non era, come in altri posti, una questione di espressione sociale, ma un fatto identitario trasversale. Trieste è stata sotto l’Austria per talmente tanto tempo che il dialetto diventava una forma di resistenza. È sempre stata una città in cui si parlavano tantissime lingue ed è così oggi con le tante comunità straniere. Userò il triestino nel prossimo film. Nel caso di La santa che dorme, volevo un dialetto sloveno. Mia nonna era slovena e, trattandosi di una favola legata all’infanzia, è subentrato l’inconscio. Mi ricordo filastrocche o canzoncine in sloveno. Ho pensato di girarlo nelle valli del Natisone, in cui parlano anche italiano, ma principalmente pensano, sognano e comunicano in nedišco. Per Piccolo corpo si è trattato di una necessità filologica: all’epoca non si parlava in italiano, ma in friulano, maranese, o gresano. È diventata una questione identitaria. Come ogni regione di confine, si è sempre parlato altro oltre all’italiano. C’è stata una forma di repressione delle lingue alternative all’italiano, soprattutto in epoca fascista. Per me era una forma di nostalgia per qualcosa che sta scomparendo.

Per «Piccolo corpo» parli di una contestualizzazione specifica linguistica, ma il film tende all’astrazione, al fiabesco. Il territorio che Agata vuole raggiungere al nord è un territorio mitico, dal nome inventato. Cosa mi puoi dire in merito?
C’è una contestualizzazione storica molto specifica e anche la geografia è reale. Abbiamo girato in continuità facendo il viaggio che fanno loro, salvo nel finale, per il lago, per cui abbiamo dovuto prendere le macchine. È una favola cruda, ha un impianto strettamente legato agli archetipi. Agata è Antigone, colei che si interroga se sia più giusta la legge dell’uomo, qui quella della Chiesa, o se ci sia una legge alta, divina. C’è un cortocircuito perché la Chiesa si fa portatrice della voce divina, però è burocrazia quello che le viene detto. C’è un elemento di astrazione nel senso che c’è un elemento di eternità. Ci sarà sempre chi, come Agata, ha subito un lutto. Dentro a quella scatola, chiusa, chiunque può proiettare il proprio fardello. Questa è la potenza del racconto. Non volevo essere ostensiva, volevo parlare dell’orrore del distacco, di come si fa a contenere dentro di sé le cose che non ci sono più.

Il concetto di sacro, in «La santa che dorme» e «Piccolo corpo», si basa sulla possibilità di un risveglio, anche temporaneo, di un corpo morto. Deriva da tuoi interessi antropologici?
Viene dal fatto che sono ottimista, credo nel fatto che qualcosa può ancora accadere. Magari nemmeno di positivo, o neanche quello che ci si augurava. In entrambi i film, le cose non vanno esattamente come si sperava, però comunque qualcosa succede. Credo nel potere dell’invocazione, che esula dalla questione fideistica di monoteismo stringente o di un’entità superiore che decide di noi. Poi ho una fascinazione per il folclore. Gramsci ne parlava come di una forma di resistenza alla cultura, un proteggersi da quella che è la versione ufficiale delle cose e un indagare con i propri strumenti fatti di superstizione e, a volte, nel caso italiano del cattolicesimo, di piccole magie. Mi ha influenzato tanto la lettura di Sud e magia dell’antropologo Ernesto de Martino. Anche se ambiento le storie in una regione diversa dalla Basilicata e dalla Puglia, le formule magiche chiedono sempre qualcosa che non hai. Sono simili alla religione. La differenza è che la religione si articola sotto forma di richiesta, di preghiera, mentre la magia è un’invenzione.

Come mai è importante declinare questa concezione al femminile? Nella scena iniziale di «Piccolo corp» ci sono solo donne, si tratta di un momento enunciativo?
Non ci soffermeremmo su questa cosa se tutti i personaggi fossero maschili, come nel mio prossimo film. Parlavamo del menarca nel caso di La santa che dorme e quindi di corpi biologicamente femminili. Nel caso di Piccolo corpo, per quanto nella tradizione fossero uomini o coppie a fare il viaggio, a me interessa un po’ quello che rimane fuori campo dei racconti. Ci siamo immaginati che fosse una ragazza sola a fare il viaggio. All’inizio pensavamo a cose tragiche, come che lei fosse una madre sola. Ma semplicemente può essere che sia l’unica che abbia voluto prendere quella strada.

Ricorrente è anche l’acqua come principio purificatore. Nel finale ci sono quelle scene in immersione. È un riferimento a «L’Atalante» di Jean Vigo?
Non è così, però ho studiato cinema quindi da qualche parte si sarà impigliata quella immagine. Io sono un animale acquatico, è una soglia per me come essere umano. Se ho una giornata brutta, vado a vedere il mare, se il tempo lo permette, faccio un tuffo. Quel momento preciso in cui vai con la testa sott’acqua e il mondo rimane fuori e pensi – perché sentiamo sott’acqua tutto distorto –, provi anche ad aprire gli occhi ma vedi tutto ovattato, è una forma di calma e di recherche.

Il mare, le spiagge sono protagonisti anche di «L’estate è finita – Appunti su Furio», un lavoro fatto con il footage di home movie famigliari d’epoca. Come mai questo esperimento?
Mi è stato chiesto dal Sistema regionale delle mediateche di fare qualcosa con quel materiale, parte del loro progetto di collazione e conversione in digitale degli home movie d’epoca. Hanno pensato di coinvolgere un autore della regione. Mi hanno lasciato la massima libertà di fare quello che avrei voluto con quel materiale, un videoclip, un film, un documentario. L’invito era di utilizzare materiale ambientato al mare. Si tratta di un lavoro in cui entri prepotentemente nelle vite di persone che spesso non sono neanche più in vita, e che non hanno girato quei filmini con quel fine. Ci vuole molto pudore. Per pareggiare i conti ho pensato di mettere tanto di me in gioco, a livello personale. Con la montatrice Chiara Dainese, e Marco Barromei, il mio cosceneggiatore abituale, abbiamo rilavorato i miei diari di quando ero ragazzina. Sono storie che ho vissuto realmente, Furio è una sintesi di personaggi. È tutto romanzato, ma è stato come incontrare il mio passato con il passato di persone che non ho mai conosciuto.