All’inizio c’è un manoscritto ritrovato che esiste e non esiste: la Nuova arte della guerra. Ci sono due sorelle, Cora e Alice, e un padre appena morto, Hawkeye. C’è un pick-up che viaggia verso nord, alla ricerca di un graal misterioso, una scatola nera che contiene tutte le parole, e con esse il mondo di prima e quello di poi. C’è il corpo evanescente di Alice, anzi Ali, che ora dopo ora si consuma per un male sconosciuto, e ci sono le braccia di Cora, che lo tengono e trattengono nella vita. C’è Úna, che guida il pick-up, e viene da un altro mondo – non quello di Ali e Cora – e che pure ha il compito di condurle verso quell’«oggetto-luogo», quella «home» leggendaria di cui Hawkeye, quand’era vivo, parlava con nostalgia e trasporto. E c’è la nuca di Úna, che Cora occhieggia per tutto il viaggio, e che le fa formulare nella mente la parola «compagna», senza sapere come né perché.

È CON QUESTA TENSIONE narrativa – questo arco teso fra vita e morte, origine e estinzione, legami di sangue e nuovi amori – che Laura Pugno ci fa entrare nel suo ultimo libro, Noi senza mondo (Marsilio, pp. 127, euro 16). Eppure è su questa medesima soglia, all’ingresso del libro, che la scrittrice ci convoca e avverte: «Cos’avviene nel centro di questa storia? Cosa ti aspetti, l’avventura, la peripezia? Ma vedi, non avviene, e se avviene è interiore Al centro di questa storia avviene – questo sì perfettamente centrato – / il vuoto».
Mentre Ali, Cora e Úna proseguono la loro epopea lontano dagli occhi del lettore, Laura Pugno ci invita a seguirla nella vertigine di TLOTM_1826: così l’autrice rinomina – come una stella, un pianeta scoperto o perduto – The Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, libro-scatola nera ancora caldo di possibili letture, ricerche e smarrimenti. La proposta è tanto inaspettata quanto trascinante: negandoci la trama (di Ali, Cora e Úna, ma anche de L’ultimo dei mohicani), Pugno ci spinge a «pensare fino in fondo, fino all’oltre» della narrazione, a guardare nel folto del bosco dove pieno e vuoto concorrono in egual misura alla scrittura del paesaggio, alla scrittura del libro.

Dando seguito al breve e fulminante saggio In territorio selvaggio (Nottetempo, 2018, pp. 128, euro 10), Laura Pugno torna sull’idea di libro come «quaderno di appunti», spazio di inchiesta e incertezza, flusso di coscienza monologante e insieme interrogazione collettiva.
Che cosa significa, oggi, confrontarsi con un classico come L’ultimo dei mohicani, che racconta «un mondo in cui accade la fine di un mondo»? E ancora: la fine del mondo è un evento, o «un processo incessante», fatto di tante fini, di tante scomparse? Il mondo a venire sarà senza di noi? O siamo piuttosto noi, oggi, a essere «senza mondo»?

INTESSENDO un fitto intreccio fra vissuto, memorie e letture – da Morizot a Haraway, da Coccia a Le Guin, da Meschiari a Atwood – Laura Pugno ci consegna un testo abitato, policentrico, vivo, sulla nostra paura della fine, del contagio, dell’impotenza. Un testo in cui scritture apparentemente lontane fra loro si parlano e rispondono grazie al pensiero-foresta dell’autrice, che procede per relazioni, reti sotterranee, micorrize.
Del resto, per Pugno – come per la gran parte degli studiosi, delle pensatrici e antropologhe che cita – il punto sta proprio nella contaminazione: solo decentrando «l’io/noi che è all’origine dell’idea stessa di fine», solo rifondando una «narrativa di continuità tra la nostra forma di vita e le altre», l’angoscia della dissoluzione del soggetto smetterà di assillare le nostre esistenze facendoci perdere di vista ciò che conta.
Non si tratta di intessere rassicuranti inni panici per celebrare una rinnovata fusione fra io e natura, né di affidarsi a tecnologie salvifiche che ritardino il più possibile la tanto temuta apocalisse. Si tratta di entrare in un altro ordine di idee, di ripensare vita e morte accorciando le distanze fra le due, di dismettere i panni della nostra presunta superiorità per tornare nel mondo che abbiamo così paura di perdere, ma da cui ci lasciamo sempre meno attraversare. Processo non indolore, eppure indispensabile.

LO SAPEVA BENE Val Plumwood, filosofa e attivista per l’ambiente, che nel 1965 viene attaccata e trascinata sott’acqua per tre volte da un coccodrillo, per poi essere inspiegabilmente rilasciata. Lo sa Nastassja Martin, docente di antropologia della natura al Collège de France, che nel 2015 viene aggredita da un orso sulle montagne della Kamchatka e anche lei lasciata andare senza un’apparente ragione. Sopravvissute a esperienze limite che non prevedevano un ritorno, sia Plumwood che Martin hanno imperniato le loro teorie – e la loro nuova visione del mondo – su questi incontri traumatici ma decisivi.
Contaminate dalla traccia animale, consapevoli di poter essere una preda al pari di tutti gli altri esseri viventi, Plumwood e Martin diventano per Pugno figure dell’ibridazione per eccellenza. Testimoni estreme di ciò che tutti dovremmo tornare a sapere, e da cui Pugno ci invita a non distogliere lo sguardo: il mondo è «uno spazio d’immersione», solo immergendoci siamo vivi, solo immergendoci potremo consegnarci alla morte «con una piena qualità vitale». Consapevoli che la nostra non è la fine ma «una» fine, attorno a cui si muovono gli inizi di altre vite, che sono e non sono la nostra.