A Roma, in occasione dell’anniversario dell’occupazione dell’Hotel 4stelle di via Prenestina (che ospita seicento persone in cima alle liste prefettizie di sgombero), la Società Italiana di Antropologia Applicata e il collettivo NOMA hanno organizzato un ciclo di incontri rivolto alla cittadinanza.

Dopo le lezioni di Osvaldo Costantini e Giacomo Macola, autore di un bel libro sul Congo coloniale (Una storia violenta, Viella), domenica è stata l’occasione per riflettere sulla figura dell’etnopsichiatra terzomondista Frantz Fanon, introdotta e discussa dall’antropologo Francesco Vacchiano (suo il recente Antropologia della dignità per ombre corte). Nato in Martinica francese nel 1925 Fanon è costretto a interrompere gli studi di psichiatria per arruolarsi con l’esercito di liberazione contro le truppe di invasione naziste.

Scoprirà presto che in seno a quell’esercito che si dichiara antirazzista persistano assurde costruzioni razziali. A guerra finita deciderà di laurearsi presentando un pamphlet dal titolo Pelle nera, maschere bianche (ETS, 2015) – il Che se ne dirà entusiasta – ma la tesi viene rifiutata. Nel ‘52 esce su Esprit La sindrome nord-africain, un saggio che descrive le violenze razziali vissute nel Nord Africa coloniale all’interno delle stesse istituzioni mediche. Fanon intuisce come la cura non possa attuarsi all’interno dei sistemi coloniali e comincia a raccontare scomode verità.

Si fa notare per i metodi poco convenzionali (fondamentale – specie se letto nel rapporto mancato con Basaglia – sarà l’episodio in cui deciderà di slegare dei malati psichiatrici permettendo loro di arrivare autonomamente al mercato). Nel ‘56 abbraccia la lotta partigiana aderendo al Fronte di Liberazione Nazionale, un anno dopo rinuncerà alla cittadinanza francese. Vuole «aiutare il nero a liberarsi da una serie di complessi generati dall’avventura colonialista». Antoine Porot, esponente della scuola psichiatrica di Algeri, aveva scritto: «gli algerini sono fannulloni, bugiardi, ladri e criminali nati».

È l’immagine di una scienza giusta per una situazione coloniale, è il mondo alla rovescia che Fanon combatte, quello in cui non c’è possibilità di cura, un territorio – quello coloniale – in cui non c’è spazio per la normalità, il luogo in cui il colonizzato sfugge al medico per conservare «l’integrità del suo corpo». È il ’59 e Fanon è nominato membro della delegazione algerina al congresso panafricano. Nel ’61 sarà a Roma per incontrare Sartre – che firmerà la prefazione del suo terzo libro I dannati della terra (Einaudi, 2007).

Parleranno per tre giorni dichiarando la decolonizzazione un programma necessario: occorre mutare quell’ordine che continua a generare disturbi mentali. Guerra coloniale e disturbi mentali sarà proprio il titolo dell’ultimo capitolo in cui Fanon descriverà, clinicamente, il processo di costruzione del dominatore. È l’esasperazione di una dinamica tesa tra dominati e dominanti, tra classi e culture. Come per de Martino e Jaspers per cui la malattia va studiata all’interno di precisi contesti sociali così, per Fanon, la malattia è espressione della colonizzazione e pertanto bisogna arrivare a decolonizzare la follia (Ombre corte, 2020).

Rileggere oggi l’esperienza di Fanon, in contesti culturali e sociali spesso fraintesi (un ex albergo occupato? un centro di prima accoglienza), inaugura un nuovo modo di andare nel mondo. Del resto, dovremmo chiederci se davvero sapremmo attribuire il giusto significato alla parola cura o se continueremo a colpevolizzare i tanti che vengono da lontano e che, oggi come ieri, oltre a ‘permettersi il viaggio’ non potrebbero permettersi, inseriti in simili contesti coloniali, la risoluzione di un problema di ordine psichico.

Riprendendo le parole di Guterres, al confine tra Israele e Palestina, potrebbe essere anche questa l’occasione per attualizzare una diversa situazione coloniale che genera quella follia che dobbiamo intendere nella tragica gravità che l’ha causata. Come insegna Fanon, – mito per una generazione che ha combattuto il colonialismo prima in Algeria e poi ancora in Vietnam, – dobbiamo penetrare la malattia psichica a partire dalle cause che generano il conflitto e portano al risorgere dei traumi nel permanere delle condizioni di fragilità.

E forse, ancora, come accade in via Prenestina, dovremmo porre la domanda sulla cura al di là di là dei soliti luoghi che tanto piacciono ai giovani animatori culturali della città, trasferendo valore e ambizione a chi, coraggiosamente, e non per convenienza, porta avanti delle vere lotte sociali.