Ottant’anni fa, il 17 marzo del 1942, nasceva a Milano Massimo Achille Bonfantini, un filosofo e semiologo indubbiamente dotato di tanta vivacità e originalità di pensiero. Accademico (ha insegnato Semiotica in diverse università italiane: Bologna, Napoli «Orientale» e Milano), e fondatore insieme al neurologo Renato Boeri di un club intellettuale dal nome strano di Psòmega (val la pena di fare un tour in www.psomega.it per scoprirne le attività), ha dedicato la maggior parte dei suoi studi e tanta sua militanza culturale a sviluppare e condividere un aspetto difficilissimo e, in parte misterioso, della mente umana: l’inventiva.

MISTERIOSA non solo perché non c’è una disciplina spirituale né una tecnica, anche solo approssimative, che si possano applicare per trovare soluzioni o per avere visioni impensate (ciò che in genere si intende per inventiva), ma anche perché non è neppur tanto facile riconoscere un pensiero o un’azione inventive, come se la conoscenza fosse d’ostacolo a percepire l’inusitato. E se per caso si stesse già pensando alla questione del «genio incompreso», ecco, par del tutto possibile rassicurare tutte e tutti che il tema dell’invenzione da Bonfantini fu posto ed esplorato come uno dei momenti peculiari, distintivi e in qualche modo necessari a ogni individuo della specie per compiere atti di conoscenza e di interpretazione tanto completi quanto normali.
Benché non pochi siano i libri congedati sulla questione da Bonfantini, la serie di interventi e dialoghi raccolti da alcuni suoi amici e collaboratori (Mauro Ferraresi, Paolo Domenico Malvinni, Giampaolo Proni e Salvatore Zingale) nel volume Scritti sull’inventiva. Saggi e dialoghi (Mimesis, pp. 256, euro 22), oltre ad essere un omaggio a tre anni dalla sua scomparsa, ha non pochi pregi per chi avesse voglia di conoscere il suo pensiero e il suo modo di pensare.

VI SI ALTERNANO infatti diverse tipologie di scritture: brevi saggi e articoli, spesso divulgativi a volte con maggior piglio scientifico e dimostrativo; dialoghi tra filosofi/semiologi (Umberto Eco, Rossella Fabbrichesi Leo, Giulio Giorello, Susan Petrilli, Augusto Ponzio, Carlo Sini e Cristina Zaltieri), che sono begli esempi di conversazione e ragionamento, e materia stessa di interesse per il modo di sviluppare il confronto tra le argomentazioni (tanto che c’è anche un dialogo sul dialogo); e ci si imbatte anche nel manifesto di Psòmega (scritto con Ferraresi) che è provocante, ingegnoso e per più versi spiazzante. Una varietà che permette un approccio a diverse velocità e intensità, e anche una più occasionale e libera consultazione di quanto non possa fare un saggio compatto e strutturato.
Cercare di restituire con qualche formula sintetica ciò che Bonfantini scrive e dice in queste pagine sull’invenzione e sull’inventare, tanto più che lo fa insieme a un’ampia cerchia di interlocutori diretti (e sempre con l’interlocuzione indiretta di Charles S. Peirce), sarebbe far torto alla stessa intenzione di chiarezza e di articolazione che contraddistingue l’intero volume, ma anche occultare quel che fu il suo stile di analisi e di soluzione. Va però ricordato qualche percorso e qualche nodo intorno ai quali girano e respirano gli argomenti.

IMPORTANTE è, per esempio, l’analisi sul ruolo che ha per la conoscenza l’attività di formare storie, un tema cui molti degli interventi rimandano esplicitamente. Infatti, l’azione di raccontare, secondo Bonfantini, è uno dei modi più potenti di sviluppare la consapevolezza dell’innovazione all’interno dei circuiti socio-conoscitivi, perché l’inventiva è anche «l’introduzione di un nuovo abito di azione in una qualunque sfera sociale», cioè la capacità, come spiega in altre pagine, di mettere in moto una funzione semiotica in cui si ricostruisce l’intero ambito di sviluppo dell’azione, sia tramite il riconoscimento del progetto che la sottende sia tramite le congetture che l’accompagnano nel corso del suo svolgimento. Si capisce così perché per il semiotico milanese sia importante stare dalla parte del lettore (è il titolo di un saggio), cioè comprendere quanto il ruolo di interprete sia fondamentale nella costruzione del messaggio, e perché il volume si chiuda con un saggio sul rapporto tra storia e invenzione.
E riavvolgendo il nastro, val certo la pena di sottolineare come gli «intermezzi» a dialogo di cui il libro è cosparso siano così significativi per costruire il percorso esplicativo e costruttivo che si compie in queste pagine: dove dialogare significa performare il linguaggio e scoprire luoghi nuovi del significato, dove la collaborazione interpretativa è strumento ma anche fine dell’indagine. Bello (e segno evidente di una lezione sull’invenzione ben assimilata) anche il dialogo che apre il volume, in cui i curatori scrivono un’immagine biografica di Massimo Bonfantini.