I dati del giorno sull’epidemia non spaventano, ma non sono nemmeno rassicuranti. Le vittime ieri sono state 111, con 416 nuovi casi positivi rilevati. Sono numeri in linea con quelli dei giorni precedenti. Ma mentre ci sono 11 regioni senza decessi, in Lombardia e Piemonte si concentra il 70% delle vittime e dei nuovi casi. Alla vigilia della riapertura alla mobilità interregionale, un virus ancora così attivo nel nord-ovest preoccupa il resto dell’Italia. La capacità di intercettare e circoscrivere rapidamente nuovi focolai, che a questo punto paiono inevitabili, è ogni giorno più rilevante.

C’È UN INDICATORE CHE, da solo, riassume molte informazioni sulla capacità di risposta delle regioni: è il tempo che passa tra l’insorgenza dei sintomi di Covid-19 e la diagnosi, cioè il tampone. È un periodo decisivo, perché in quei giorni una persona può essere contagiosa senza averne la certezza, e senza indicazioni sui comportamenti più corretti da assumere. Per abbreviarlo, è necessario che la macchina della prevenzione funzioni come un orologio: il paziente non deve sottovalutare i sintomi e contattare il medico di base, il quale allerterà le autorità sanitarie che a loro volta, nel tempo più breve possibile, garantiscono un test a domicilio o su appuntamento. Se uno di questi passaggi si inceppa, il sistema di sorveglianza va in tilt.

La rapidità dei tamponi è dunque un elemento fondamentale nella risposta alla pandemia. Tanto che il Ministero della Salute l’ha inserita tra gli indicatori decisivi nella valutazione del rischio delle regioni. Secondo i tecnici, tra sintomi e diagnosi non dovrebbero passare al massimo 5 giorni, soglia oltre la quale scatterebbe un’allerta sulla sicurezza. Tuttavia, secondo i dati aggiornati ieri dall’Istituto Superiore di Sanità, tra sintomi e diagnosi di giorni in media ne passano 6. Un tempo lunghissimo, che non si giustifica con l’emergenza e che preoccupa alla vigilia delle riaperture.

NON IN TUTTE LE REGIONI il monitoraggio è così lento. In Liguria, ad esempio, bastano due giorni per avere un tampone. A Milano invece la macchina dei test gira ancora lentissima, come segnalano diverse testimonianze anche sui social network. «Un operatore della Regione Lombardia mi ha spiegato al telefono che la situazione tamponi nella città di Milano è ingestibile. Stanno accumulando parecchio ritardo nell’esecuzione dei tamponi» spiega ad esempio la giornalista Charlotte Matteini, che attende un test da dieci giorni. «Io il 12 aprile ho iniziato ad avere la febbre a 38, per 4 giorni di fila, poi tosse, nausea, mal di gola e dolori vari» racconta su Facebook Cristina Rapisarda, sempre da Milano. «Ho avuto un unico tampone dopo 25 giorni, quando ormai stavo bene da un pezzo, e quell’unico tampone è uscito negativo. Sono uscita ancora poco per altri 10 giorni. Ora sto prenotando il test sierologico, ma è una barzelletta». Il crack della sanità territoriale in Lombardia è tutt’altro che superato.

CHE SI TRATTI DI UNA CRISI strutturale e non episodica lo certifica anche la Corte dei Conti nel suo rapporto annuale sulla finanza pubblica. La Corte si sofferma sull’efficacia del sistema sanitario con parole durissime. «La mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate», scrivono i magistrati contabili.

«Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, tale carenza ha finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta». Il rapporto mette sotto accusa il modello sanitario lombardo, che ha concentrato gli investimenti sanitari nei grandi ospedali mentre la medicina di base è rimasta sguarnita.

I dati sullo smantellamento della medicina di base lombarda parlano chiaro: i medici di base in Lombardia sono diminuiti del 5,6% tra il 2012 e il 2018, mentre il numero medio di assistiti è passato da 1282 a 1400. «È sempre più evidente», prosegue la Corte «che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia»