Fare arte è spesso un’operazione al negativo, simile al disfare, al dar luogo a una distruzione creativa. Si pensi ai tagli di Fontana o alle combustioni di Burri. Varie forme di questo paradosso sono discusse nel dialogo fra Mary Ann Caws & Michel Delville, Undoing Art (Quodlibet, pp. 93, euro 10); libro nel quale vengono attraversate opere, performance, teorie estetiche da Duchamp a Critchley, da Artaud a Reed – quest’ultimo significativamente autore dell’opera This is Not an Artwork.
Secondo Caws e Delville sarebbe proprio l’opera quella maggiormente votata al non-fare o al disfare dell’undoing, mentre l’autore rimarrebbe indenne dagli effetti di tale processo negativo. Anzi, quest’ultimo costruirebbe la sua figura autoriale anche trattando se stesso come un’opera d’arte da disfare. Benché distruttivo della persona, secondo Caws & Delville, persino «il suicidio di ogni artista, Rothko incluso» contribuirebbe alla creazione.

È DA NOTARE però che la performance di un atto distruttivo può anche essere il tentativo di una sua affermazione spettacolare. In fondo, al di là dell’estetica, anche la strategia del terrore si basa su un analogo disfare, sul distruggere per richiamare l’attenzione di un pubblico, in modo da indurlo a collaborare alla costruzione dell’autorevolezza politica di chi rivendica la distruzione. Anche l’undoing artistico teorizzato da Caws & Delville sembra affetto da una simile distruzione rituale e sacrificale, i cui resti troviamo oggi nello spettacolo, dove gli opposti del fare e disfare, del costruire e distruggere sono simbiotici. Nonostante proclami un’idea d’arte secolarizzata, l’undoing di Caws & Delville, rischia così di approdare nuovamente proprio al sacro e religioso dai quali vorrebbe invece distanziarsi.

IL LORO TENTATIVO di far diventare feriale l’opera d’arte, ne evoca più che mai la sua permanenza nella «domenica della vita» di hegeliana memoria. Anche l’undoing del «rituale dell’albero di Natale» effettuato dell’artista Bailey Bob Bailey, menzionato come esempio da Caws & Delville, va oltre la generica «destituzione di uno spazio teatrale» e sembra inscenare qualcosa di simile a un rito totemico della nostra civiltà dei consumi.
Leggendo cose come «l’ambivalente status della cancellazione come pratica poetica capitalizza l’urgenza del non fare distruttivo verso l’oggetto d’arte sotto attacco», fa riflettere sul fatto che oggi l’undoing non riguardi soltanto il mondo dell’arte, ma ogni fare e rapporto di lavoro.

BEN OLTRE L’ESTETICA, la distruzione creatrice è oggi soprattutto nelle mani di autorità che ne hanno compreso da tempo la forza economica e politica nella «società dello spettacolo» (Debord), nella quale anche l’undoing estremo della morte può diventare merce da scambiare (Baudrillard). E ciò non soltanto per ottenere i famosi «quindici minuti di notorietà» profetizzati da Warhol, ma anche semplicemente per stare in vetrina, fare curriculum e continuare a offrirsi come autori imprenditori di se stessi. L’estetica della distruzione dell’opera in cambio della costruzione dell’artista, politicamente parlando non fa altro che rivelare la transazione sociale che nutre, per affamare sempre di più, l’esponenziale offerta di se stessi nel mercato. La vita come opera d’arte, oggi si rivela essere sempre più chiaramente un principio economico che una scelta di poetica.

SE L’ARTE E L’ESTETICA credono ancora di avere un compito oggi, come ritengono anche Caws & Delville, forse questo compito potrebbe essere non tanto quello di disfare l’opera artistica, quanto di non-fare da rituale spettacolare e ideologico alla distruzione, di cui si alimentano cinicamente e più efficacemente di quanto faccia l’arte, le retoriche – queste sì, davvero estremistiche – dello shock economico (Klein) e dell’emergenza politica.