L’Atlante dei conflitti ambientali (Environmental Justice Atlas), creato nel 2012 dall’economista Joan Martìnez Alier, raccoglie 3.553 casi di lotta per la difesa dell’ambiente. Liberamente consultabile sul sito ejatlas.org è disponibile in 7 lingue (inglese, italiano, spagnolo, francese, arabo, mandarino e turco) e viene continuamente aggiornato con nuovi casi o informazioni recenti su quelli già presenti (chi volesse collaborare può farlo tramite il sito). Si può consultare per paese, per tipo di risorsa, per impresa (la compagnia petrolifera Shell è in testa per numero di conflitti aperti, 59 nel mondo) o per tipologia di conflitto (es: dall’accesso all’acqua all’accaparramento di terra, dalle discariche alle dighe, dalla sfruttamento delle foreste all’estrazione di minerali). Negli anni si è affermato come strumento utile non solo per chi studia economia ecologica, ecologia politica o storia dell’ambientalismo, ma anche per chi si occupa di economia aziendale e management e intende applicare i criteri di responsabilità sociale di impresa o è interessato al rispetto dei diritti umani delle imprese. Il materiale raccolto è una miniera di informazioni utile alla compilazione di indici e parametri sulla responsabilità o irresponsabilità aziendale, l’impunità delle corporation, il loro grado di trasparenza.

Complessivamente, dei casi mappati e monitorati – che certo non possono esaurire la totalità dei casi di giustizia ambientale del mondo, ma sono un buon indicatore – i casi di successo, che hanno portato a bloccare progetti o alla chiusura di impianti o imprese, sono il 17%. Il resto sono lotte che si sono rivelate inefficaci o il cui esito è incerto. Di seguito alcuni casi rilevanti, alcuni vittoriosi altri no, riportati nell’Atlante.

GIAPPONE. Tra i casi di successo figurano le numerose vittorie del movimento giapponese Kiko che si è opposto alla massiccia costruzione di centrali a carbone programmate dal governo di Tokyo all’indomani del disastro nucleare di Fukushima del 2011: su 50 nuovi impianti, anche grazie alle proteste di Kiko ne sono stati cancellati 13 per un totale di 7000 MW che avrebbero comportato l’emissione di 1,6 miliardi di tonnellate di CO2 (equivalenti a rimuovere dalle strade 7,5 milioni di automobili per 40 anni) nel loro ciclo di vita. L’ultima centrale depennata dal piano del governo è stata quella della città di Ube, il 16 aprile scorso, quando la Electric Power Development ha annunciato in una nota che nell’area dove sarebbe dovuta sorgere la centrale a carbone «si prevede che la domanda di elettricità rimanga stabile, mentre sta crescendo l’uso di fonti di energia rinnovabile». La fondatrice del movimento Kiko è la cinquantenne Kimiko Hirata, premiata quest’anno con il premio Goldman per l’ambiente, per il suo trentennale impegno militante contro i cambiamenti climatici.

COREA DEL SUD. Dal 2016 attorno ad una delle centrali elettriche a carbone più grandi del mondo, la Dangjin Power Station, 80 km a sud di Seul, controllata per il 51,1% dal governo coreano, si è creato un movimento di protesta che chiede il ridimensionamento dell’impianto che ha un piano di espansione fino al 2029 e preme per l’avvio della transizione da carbone a gas e alle rinnovabili che contano solo per il 2% della produzione primaria di energia. La centrale, che ha dieci unità per una potenza di 6040 MW, produce il 40% dell’energia elettrica della Corea, causando seri problemi di inquinamento e un tasso di mortalità nel territorio che è superiore alla media della popolazione coreana. Per quanto la Corea consideri il sistema produttivo della vicina Cina responsabile dell’inquinamento che soffoca spesso la penisola, la centrale di Dangjin, alimentata per lo più con carbone importato da Indonesia e Australia, è certamente responsabile di gran parte delle polveri sottili e delle alte emissioni di CO2.

NORVEGIA. Nel gennaio 2021 il governo norvegese ha comunicato l’intenzione di estrarre dai fondali oceanici al largo dell’arcipelago delle Svalbard metalli e terre rare, materiali critici per l’economia green: manganese, cobalto, argento, oro, scandio. Nelle intenzioni del governo queste attività costituirebbero un’alternativa alle estrazioni dei combustibili fossili. La notizia ha sollevato le proteste di varie associazioni ambientaliste norvegesi che temono per la devastazione dei fondali, la perdita di biodiversità e l’inquinamento delle acque e si associano alla richiesta di una moratoria globale per le estrazioni nei fondali marini. Dopo consultazioni pubbliche nel paese, la proposta governativa sarà oggetto di un voto parlamentare.

SUDAFRICA. Ha pagato con la vita la sua protesta contro l’espansione della miniera a cielo aperto Tendele, nei pressi di Somkele, nel KwaZulu Natal. Si chiamava Fikile Ntshangase ed è stata uccisa a colpi di pistola nella sua abitazione da tre sicari il 20 ottobre 2020. Il caso della miniera di Tendele compare nell’Atlante da alcuni anni. La popolazione locale si è mobilitata dal 2010 più volte contro la sua espansione che comporta, oltre all’alterazione del paesaggio e all’inquinamento atmosferico, anche la contaminazione e l’esaurimento delle falde acquifere, tanto che i residenti sono costretti ad allontanarsi per almeno due chilometri per approvvigionarsi di acqua dall’impianto comunale oppure comprarla da trafficanti. Gli attivisti hanno denunciato che per anni la miniera ha operato illegalmente senza un permesso di utilizzo dell’acqua.

GIAMAICA. L’azienda cinese Jinquan Iron & Steel nel 2017 ha acquistato da una compagnia mineraria russa operante in Giamaica l’impianto per l’estrazione di bauxite e produzione di alluminio Alpart dove creare una nuova centrale a carbone da 1000 MW per fornire energia a basso costo all’impianto. Subito si è formato il comitato #SayNotoCoalJa che con petizioni, manifestazioni, campagne di informazione ha convinto la comunità locale a protestare contro il governo che aveva già avallato le politiche di sviluppo della società cinese con la promessa di 3 mila posti di lavoro. L’impianto, però, avrebbe emesso 6,7 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, una quantità che avrebbe impedito alla Giamaica di rispettare gli impegni dell’Accordo di Parigi. Grazie alle pressioni, il progetto della centrale elettrica a carbone è stato archiviato e sostituito con un impianto alimentato a gas naturale liquido. Per la comunità locale, una vittoria.

ARGENTINA. Nell’alta valle del Rio Negro, in una zona a vocazione frutticola dove si producono mele e pere, dal 2013 la compagnia petrolifera argentina YPF ha cominciato a estrarre tight gas, ovvero gas da sabbie compatte con la tecnica del fracking. Alle proteste della popolazione locale, la compagnia in un primo momento ha negato di utilizzare la fratturazione idraulica: tuttavia, i rumori molesti, le esplosioni, gli sfiati di gas, le vibrazioni, le contaminazioni di suolo, acqua e l’aumento dell’attività sismica, hanno reso impossibile negare l’evidenza. La popolazione locale ha in seguito cominciato ad accusare numerosi malesseri (mal di testa, nausea, vomito, diarrea, stress) e a denunciare danni alle abitazioni, agli impianti di irrigazione e perdita di quote di mercato della produzione biologica. Le azioni di protesta, l’ordinanza comunale no-fracking (poi dichiarata incostituzionale), le lettere, le petizioni e le marce non sono servite a sospendere o bloccare l’estrazione del tight gas. Quello che sta succedendo alla zona frutticola del Rio Negro è che la produzione sta diminuendo, i piccoli proprietari sono costretti ad andarsene, mentre aumentano i pozzi di estrazione non convenzionale.

PUGLIA. Nell’Atlante dei conflitti compare, tra i casi italiani, anche il movimento No-Tap (Trans Adriatic pipeline) che si è opposto – senza successo – contro il gasdotto in costruzione nel Salento. Nel suo logo spicca lo slogan Né qui né altrove, a sottolineare che non si tratta di un caso di sindrome Nimby, Not in my backyard / Non nel mio giardino, semmai di un movimento Niaby che sta per Not in anyone’s backyard / Nel giardino di nessun altro.