Tentando di mettere a fuoco i moventi che lo spingono a scrivere, László Krasznahorkai ha parlato dell’insistenza con cui «entità» non meglio precisate esigerebbero da lui di essere messe al mondo attraverso la parola: «Non sono io a inventare queste storie, bensì i miei personaggi, che sgomitano per esistere». Fin qui la sua visione pirandelliana della letteratura, che vede l’autore assillato da spettri ansiosi di incarnarsi sulla carta. Ma Krasznahorkai è andato oltre: ha ipotizzato che le ultime volontà espresse dal suo protagonista debbano trovare attuazione non nell’orizzonte che il testo gli riserva, bensì nello spazio extraletterario. Ora, quali inconsulti attriti tra le immagini evocate e i loro referenti effettivi si determinerebbero se un personaggio scavalcasse d’impeto i margini della pagina e rivendicasse il proprio diritto di cittadinanza nella realtà?

È questo l’ interrogativo attorno ai quali ruota Guerra e guerra, scritto negli anni Novanta tra l’Europa e New York, e ora proposto da Bompiani (pp. 400, € 20,00) nella fluida traduzione di Dóra Várnai, che di Krasznahorkai ha già reso in italiano il sulfureo romanzo d’esordio Satantango, nonché il più recente Il ritorno del barone Wenckheim.

Da Berlino a N.Y al reale
Mentre entrambi questi libri sono orchestrati intorno a una situazione ricorrente, e cioè l’attesa spasmodica di uno o più personaggi incaricati di alterare la condizione di stallo da cui si era partiti, Guerra e guerra segue tutt’altra traiettoria, sviluppandosi intorno a una visione angosciante che avrebbe visitato l’autore a Berlino mentre attraversava di notte il Kurfürstendamm deserto: «…alcune persone che fuggono in cerca di scampo, in mezzo a una rovina senza tempo, con la mente che s’affanna a passare in rassegna tutto ciò a cui devono dire addio». Si direbbe che Krasznahorkai, nel rievocare questa immagine «tanto violenta da stringere il cuore», avesse in mente l’inspiegabile terrore che nel 1869 colse Tolstoj in una locanda dello sperduto villaggio di Arzamas; di certo, il titolo scelto dallo scrittore ungherese fa pensare fin da subito a una rilettura postmoderna e apocalittica di Guerra e pace.

L’ipotesi trova conferma non appena si affaccia sulla scena il protagonista, György Korin, «storico locale di un posto dimenticato da dio», che si scoprirà essere Gyula, la città natale dell’autore. «Tutto è rovinato, tutto è imbruttito», così esordisce questo ometto bizzarro dai tratti chiaramente paranoici, convinto, per esempio che, prima o poi, la testa gli si staccherà dal collo e cadrà.

Deluso dagli esseri umani, ormai incapaci di provare nobili sentimenti, Korin si rifugia nella letteratura o, meglio, in un misterioso manoscritto ritrovato per caso sugli scaffali polverosi di un archivio. L’inaudita bellezza del suo contenuto lo spinge a mollare tutto e a raggiungere «il centro del mondo» (ovvero New York) dove renderà disponibile il testo su un sito creato appositamente, che chiamerà warandwar.com. Neppure oltreoceano, tuttavia, Korin riesce a sottrarsi ai fantasmi che lo perseguitano. La sua fuga trova infatti una paradossale rispondenza nel testo da lui trafugato, basato sulle peripezie di quattro figure «perseguitate dall’incubo della guerra» che, pur spostandosi da un capo all’altro d’Europa e da un secolo all’altro, finiscono inevitabilmente per cadere vittime dei maneggi di un certo Mastermann.

Barricato in uno squallido appartamento dell’Upper East Side, Korin trascrive febbrilmente le loro avventure per affidarle a Internet («l’isola temporanea dell’eternità») finché di colpo tutto precipita: il manoscritto si fa sempre più oscuro e illeggibile, mentre diventa inequivocabile l’identità dell’uomo ungherese – artista fallito e saltuario trafficante di droga – dal quale il protagonista ha trovato temporanea ospitalità.

Infine, costretto a lasciare anche New York e il suo «grattacielume», Korin crede di avere individuato un eutopos dove la guerra non può arrivare, e questo luogo felice altro non è che un igloo realizzato da Mario Merz per il museo Hallen für Neue Kunst di Sciaffusa. Così, Krasznahorkai «coinvolge» nel suo romanzo l’artista italiano (che all’epoca era, ovviamente, ancora vivo) invitandolo a omaggiare, nella realtà delle proprie performance, il suo sfortunato eroe di carta, con un intervento in situ (che chi leggerà scoprirà).

Sono gli ossessivi, fluviali monologhi in cui Korin si esibisce ciclicamente di fronte ad ascoltatori sempre più sbalorditi i momenti migliori di Guerra e guerra, meno perfetto di altri libri di Krasznahorkai e un po’ faticoso nelle parti metaletterarie dove il protagonista riferisce alla convivente del suo anfitrione le vicende trascritte dal manoscritto. Molto più riuscite, invece, le scene che adombrano il commovente rapporto di confidenza tra la donna, una portoricana «perennemente spaventata da qualcosa», e Korin, incalzato da una urgenza comunicativa irrefrenabile, che non indietreggia neppure davanti alle evidenti lacune del suo inglese.

In una cucina forse ispirata a quella di Allen Ginsberg (amico di Krasznahorkai e suo anfitrione durante la stesura del romanzo), Korin persegue un desiderio che sa essere irrealizzabile: «comprimere tutto in un’unica frase, dire tutto con un solo, profondo, definitivo respiro, davvero tutto». L’esigenza del personaggio riflette quella stilistica dell’autore magiaro, nemico giurato dei punti fermi e instancabile artefice di periodi lunghissimi, giustamente paragonati dal suo traduttore inglese, George Szirtes, a «colate di lava verbale».

Ipnotici soliloqui
Incalzato da questo magma di parole che sfrutta la natura agglutinante della lingua ungherese, il lettore non può fare altro che andare avanti, sprofondando riga dopo riga nella mente sconclusionata del protagonista, un universo in cui tutto è ipotetico e nulla certo, dal momento che è impossibile appurare se egli abbia davvero ritrovato quel manoscritto che dice di voler diffondere su Internet o se non si sia inventato tutto, pagina dopo pagina, pur di intrattenere la sua interlocutrice. Altrettanto improbabili – nelle sue parole – le teorie (sull’estinzione degli ungheresi, oppure sul complotto ordito insieme da Dio e dagli uomini ai danni della bellezza del cosmo) che, di volta in volta, espone a fortuiti compagni di viaggio o di bevute. Ma astrazioni a parte, è davvero difficile non soggiacere al ritmo ipnotico dei soliloqui di Korin, malinconico e inascoltato cantore di tutte le esistenze possibili, esistenze perdute ogni qual volta facciamo mancare la nostra fede alla letteratura.