Raffinato tornitore di periodi ipnotici e interminabili che richiedono a chi legge un’attenzione totale, László Krasznahorkai ci ha abituato a romanzi che si snodano come gomitoli, disfacendo pian piano la tensione accumulata. È uno schema che torna con insistenza nelle sue opere principali, da Satantango fino a Guerra e guerra, e che viene tuttavia infranto in Seiobo è discesa quaggiù, eccentrica meraviglia risalente al 2008 e ora proposta da Bompiani nella traduzione fluida di Dóra Várnai (pp. 516, € 25,00). Più che orientarsi verso lo scioglimento finale, questo testo somiglia a una silloge di racconti centrati su un unico motivo, ossia il ruolo che l’esperienza estetica e la creazione artistica rivestono nell’esistenza umana.

Personale quadreria
Tentando di penetrare la logica di quella pulsione che dalla notte dei tempi spinge l’uomo a produrre bellezza e a goderne, Krasznahorkai procede per accumulo, allineando variazioni sempre nuove sul tema, quasi stesse ordinando i pezzi di una propria personale quadreria. Le sue storie sembrano replicare, in particolare, due pattern opposti eppure intimamente legati: da un lato l’appassionato lavoro creativo (spesso confinante con l’autoannullamento) di chi tenta con abnegazione di dar forma visibile a una idea o di riportare all’antico splendore un’opera del passato; dall’altro lo sguardo profano del visitatore che si sforza di apprezzare il senso di quei capolavori, pur sprofondando nelle bolge del turismo di massa.

La ripetizione inizialmente spiazzante di situazioni molto simili trova la sua motivazione nella struttura stessa che lo scrittore ungherese, nato a Gyula nel 1954, conferisce alla propria opera: i diciassette racconti che la compongono sono infatti numerati secondo la successione di Fibonacci da 1 a 2584. Con questo espediente Krasznahorkai sembra suggerire che gli episodi di Seiobo è discesa quaggiù altro non sono se non i tasselli di una progressione teoricamente infinita; al contempo però allude al fatto che ogni racconto (tranne il primo) – proprio come nella sequenza di numeri individuata dal matematico pisano nel 1202 – qualora «sommato» a quello che lo precede, dà per risultato il testo successivo.

In effetti, una complessa serie di risonanze riecheggia in queste pagine in ossequio a quella logica pseudo-musicale cui l’autore sostiene di essersi ispirato per «comporre» anche altri romanzi – i capitoli di Satantango per esempio seguirebbero l’alternanza di passi in avanti, indietro e a lato di una figura del tango. Se questo orientamento concettuale alla scrittura non degenera in sterili lambiccamenti o nella noia è merito della straordinaria abilità di Krasznahorkai, capace di trarre dal nulla personaggi pienamente autonomi, che si imprimono nella mente del lettore al di là di qualsiasi analogia o schema predefinito.

Tutto ha inizio con la visione di inarrivabile purezza dell’Oshirosagi, l’airone bianco giapponese che, sulle rive del fiume Kamo, perfettamente immobile, attende con gli occhi fissi sulla superficie in movimento dell’acqua che si profili una preda. «Artista indifeso e superfluo dell’attenzione concentrata» e pertanto simbolo dell’individuo creatore, l’Oshirosagi assume fattezze antropomorfe nei successivi racconti; eppure nessuno dei suoi emuli potrà mai eguagliarne la capacità di elevarsi al di sopra delle contingenze terrene. Sebbene l’uomo non possa fare a meno di ricercare la bellezza, i suoi sforzi di crearla o di esperirla si rivelano a volte infruttuosi; proprio queste débâcle innescano in Seiobo un turbinio di situazioni narrative, strazianti, buffe o esilaranti. Come nei precedenti romanzi, anche qui i personaggi di Krasznahorkai sono spesso uomini soli e in là con gli anni; per loro l’ossessione prodotta dall’incontro fortuito (o, al contrario, insistentemente cercato) con un’opera d’arte diventa l’unica esperienza sentimentale di una vita altrimenti vuota.

Emblematica, da questo punto di vista, è la vicenda di Monsieur Chaivagne, il guardiano della sala del Louvre dov’è esposta la Venere di Milo, che ogni giorno di apertura del museo si infila nei vagoni di tre linee diverse del metrò per custodire la statua fragile e inerme di quella dea che «ha perduto il suo mondo», non avendo la bellezza di cui è epitome eguali al giorno d’oggi.

In Seiobo l’esperienza estetica si lega quasi sempre alla nostalgia per un passato irrimediabilmente perduto: nel racconto successivo, il n. 377, anche la musica viene sentita come «il dolore di chi ha perso la propria casa celeste», ma questa sofferenza assume una tonalità grottesca, essendo il protagonista un conferenziere che ammira fanaticamente il periodo barocco, ed è impegnato a persuadere il suo sparuto pubblico di vecchietti del fatto che l’armonia si è eclissata dal mondo con la morte di Johann Sebastian Bach.

L’ironia non abbandona mai Krasznahorkai, tenendolo al riparo da banali pose estetizzanti. Tra i suoi personaggi «a caccia di bellezza», alcuni spaesati turisti ungheresi che, all’interno di chiese e musei, hanno la tendenza a sedersi dov’è vietato; sedotti dallo sguardo triste o severo di un Cristo, sono tormentati dal caldo, dalle scarpe strette o da biglietti d’ingresso «spaventosamente cari».

Tutt’altra atmosfera domina i racconti (ben sei) di ambientazione nipponica, dove l’autore dà voce alla sua ammirazione per il paese del Sol Levante, in cui ha soggiornato più volte. Nell’assorta dedizione di un maestro del teatro No mentre scolpisce una maschera, oppure nella complessità dei rituali che salutano il ritorno di una statua del Buddha nel tempio dopo il restauro, Krasznahorkai vede la tenace sopravvivenza di una tradizione che intende l’artefice anzitutto come mediatore tra visibile e invisibile, materiale e spirituale.

Addio al sacro
Tutto questo in Occidente è andata perso quando l’arte si è distaccata da ogni residuo legame con la dimensione del sacro; non a caso, per recuperarne il senso lo scrittore è costretto a retrocedere fino alla pittura del Rinascimento. Splendidi sono i testi sul Perugino e su Filippino Lippi, «tramutato» in erede e reincarnazione dell’airone bianco: anch’egli fin da bambino era «capace di passare lunghe ore sulla riva del torrente a studiare le increspature dell’acqua e il riflesso della luce sulle onde».

Al mondo contemporaneo Krasznahorkai fa un’unica concessione, nel racconto n. 144, dove ritrae l’artista concettuale Ian Grigorescu mentre è intento a realizzare in una fossa scavata in un campo un cavallo di terra a grandezza naturale, un destriero ctonio che, col muso schiumante rivolto verso l’alto, fugge «come spaventato da una forza terrificante». L’immagine potente entra in risonanza con le statuine zoomorfe sepolte della dinastia cinese Shang evocate dall’ultimo racconto, il 2584, dove l’autore immagina un esercito di animali di bronzo che «in numero incalcolabile urlano sottoterra»: a ricordarci che, sebbene l’istinto della creazione abbia i caratteri dell’eterno e dell’infinito come la successione di Fibonacci, perfino l’artista deve arrendersi alla morte che inghiotte ogni cosa.