L’assedio dell’uomo nero
Cinema «’Babadook» di di Jennifer Kent lavora sulle inquietudini più destabilizzanti. Tra Polanski e riferimenti al Caligari tedesco, la regista australiana costruisce uno spazio domestico di paura ossessiva
Cinema «’Babadook» di di Jennifer Kent lavora sulle inquietudini più destabilizzanti. Tra Polanski e riferimenti al Caligari tedesco, la regista australiana costruisce uno spazio domestico di paura ossessiva
Come ai bei tempi, l’horror torna a fare paura. Per davvero. Quale migliore incentivo per affrontare la calura estiva e andare al cinema se non la notizia che la Rai ha censurato il trailer di The Babadook ritenendolo troppo «spaventoso»? Quale miglior complimento per la regista Jennifer Kent che nell’epoca del torture porn e delle home invasion riesce a terrorizzare con un personaggio che salta fuori da un libro per ragazzi? Bidimensionale come un sogno artigianale di cartone quando domina la dittatura della verosimiglianza digitale, il Babadook assomiglia in maniera sconcertante al dottor Caligari di Robert Wiene. Tarchiato, con un sospetto di pancia da buongustaio ma, essendo di carta, quindi molto sottile, si nasconde nei meandri più bui di un armadio, con il suo cappello a cilindro e una corona di denti aguzzi come solo i fratelli Grimm avrebbero potuto immaginare.
Un’invenzione a dir poco fuori dalla norma e dai canoni del cinema dell’orrore contemporaneo. Jennifer Kent, come ai bei tempi della Ozploitation, ossia l’ondata di cinema di genere proveniente dall’Australia che ci ha regalato fra l’altro Patrick e Mad Max, scompagina le regole del cinema «da paura» contemporaneo come è più del pur eccellente Wolf Creek 2.
Rispetto al sanguinario film di Greg McLean, The Babadook non gioca con le viscere dello spettatore, non porta il suo attacco frontalmente. Mettendo in campo un’intelligenza formale davvero sorprendente, Jennifer Kent opta per un cinema dell’inquietudine che riesce a praticare senza risultare vittima di evidenti modelli di riferimento (Polanski su tutti, ovviamente).
Nel perimetro limitato di uno spazio domestico dove si consuma l’elaborazione del lutto per la morte del marito e del padre, compare, dal «profondo della notte», un mostro antico (il riferimento puntuale all’espressionismo), unghiuto, sincretico (il Babadook è la versione pre-moderna di Freddy Kruger, il bozzeto cartaceo del predatore pedofilo di Elm Street). Quest’uomo nero, facile immaginarlo somigliante alle descrizioni che i londinesi davano di Jack lo Squartatore, in grado di superare a sinistra persino il Bughuul di Sinister (di cui è in arrivo il seguito), restituisce ai villain del cinema dell’orrore la dignità perduta che una serialità priva di immaginazione ha sottratto loro in nome del profitto.
Kent, infatti, lavora lo spazio della casa privata della presenza maschile, come un corpo del desiderio esplorato istericamente in presenza di un tabù infrangibile. Come dire, un «mostro» e un «monito». Il desiderio frustrato nei confronti di un amante morto, si manifesta come un surplus immaginario che non può essere né trasportato né riversato sul figlio (l’incubo dell’incesto) il quale, invece, non aspira ad altro (inconsciamente) che a sostituire il fallo paterno nei confronti della madre. La madre, per esorcizzare lo spettro del tabù, mette letteralmente in scena, ma come se fosse una creazione del bambino, un «super-fallo» maligno, tanto desiderabile quanto più è temuto e rifiutato.
Se il teorema psicanalitico in mani meno abili avrebbe potuto dare luogo a un compitino maldestro, in quelle di Jennifer Kent si rivela micidiale. Lo spazio della casa diventa un assedio da camera ossessivo. I movimenti di macchina esplorano la casa come delle rasoiate. Fra incubo espressionista e casa delle bambole, lo spazio del film si derealizza progressivamente sino a diventare l’immagine di un cervello che funziona a pieno regime come una catena di montaggio del desiderio surriscaldata e sul punto di collassare. Straordinario saggio sull’isteria e la mancanza (oltre che la minaccia della sessualità), The Babadook, proprio come i fondisti del cinema di genere di una volta, si è imposto all’attenzione della del pubblico e della distribuzione proiezione dopo proiezione. Un film genuinamente fuori dal coro, pieno di invenzioni visive, mai banale, sempre rigorosamente nel campo del cinema, senza nulla concedere ai nerd, in grado di dimostrare che la “paura”, quella cinematografica almeno, è questione di inquadrature e profondità di campo; di stacchi di montaggio e movimenti di macchina. E, soprattutto, di creazione di uno spazio alternativo al reale, in grado di invocare l’unico miracolo, stando a Jean Beaudrillard, ossia la sospensione della realtà, la sua discontinuazione.
Ovviamente è presto per dire se Jennifer Kent possa sin d’ora candidarsi a un ruolo di primo piano nel rinnovamento del cinema dell’orrore contemporaneo. Lo sapremo al momento giusto. Ciò che è certo è che raramente negli ultimi anni nell’horror si sono visti esordi più solidi e maturi di The Babadook. Film in grado di rimettere in gioco radicalmente possibilità del genere e paure profonde con tanta sicurezza; visceralità ed eleganza, unendole a senso e gusto del cinema tanto potente quanto disturbante.
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