Chi si è imbattuto in Paolo Fabbri in qualche occasione pubblica non mancherà di ricordare come il suo intervento fosse immancabilmente il più brillante ma anche, e soprattutto, quello che lasciava il segno, su cui si tornava a riflettere anche nei giorni o nei mesi seguenti.

Al di sotto della brillantezza stava infatti una rara intelligenza teorica, che gli permetteva di andare alla sostanza dei problemi, conservandone la complessità, con la pacata chiarezza di chi domina, anche se con nonchalance, quello di cui sta parlando. E questo non solo se la discussione riguardava il suo specifico ambito scientifico, ossia la semiotica, ma anche se ci inoltrava su altri terreni disciplinari. Non era facile prendere la parola dopo di lui.

NEL «NOME DELLA ROSA», Umberto Eco introduce un personaggio, Paolo da Rimini, con evidente riferimento a Paolo Fabbri. Di lui si dice che è stato allievo a Parigi di tale padre Algirdas di Cluny (ossia il linguista Algirdas Greimas) e che legge molto ma non scrive niente. Come nota Stefano Bartezzaghi nell’introduzione a un volume recentemente riproposto da Meltemi, Segni del tempo, Un lessico politicamente scorretto (pp. 256, euro 20), in realtà Fabbri non corrispondeva alla caratterizzazione ironica di homo agraphicus, o meglio avrebbe finito per corrispondervi sempre meno, dal momento che più passavano gli anni più la sua produzione scritta aumentava, dispersa in una molteplicità di rivoli.

E tuttavia se c’è forse qualcosa di vero nell’affabulazione su Paolo da Rimini, riguarda non tanto il dato quantitativo della produzione scritta quanto un’aspettativa delusa, relativa al fatto che Fabbri non abbia prodotto quelle opere di grande respiro che da lui, come da pochi altri, era ovvio attendersi, e nelle quali venissero a sintesi la sua capacità di ascolto del presente e la miriade di intuizioni disseminate nei suoi interventi.

Di conseguenza, se l’opus maius non è mai arrivato, a distanza di un paio di anni dalla sua morte, non si può che fare tesoro dei testi sparsi che costituiscono il lascito di Paolo Fabbri. Come quelli raccolti in questo libro, in cui confluiscono le voci di un lessico che, con il titolo Parole, parole, parole, veniva pubblicato su L’unità, diretta da Furio Colombo, a partire dal 2001. Pensando a quel periodo, segnato dalla fasce ascendente della globalizzazione e, qui da noi, dal consolidamento di Berlusconi al centro del sistema politico, ci si potrebbe aspettare da un lessico dell’attualità la via facile dell’ironia, dell’irrisione degli aspetti più grotteschi e volgari di quel «nuovo» che avanzava.

MA NON È COSÌ. L’analisi delle parole, dei loro slittamenti semantici, opera come sensore per cercare di cogliere le profonde trasformazioni che investono le modalità condivise di rappresentazione della realtà in una fase di transizione verso un tempo in cui per molti versi ancora siamo, vivendone la fase ferocemente crepuscolare.
Una critica che si potrebbe rivolgere al volume riguarda il sottotitolo, Lessico politicamente scorretto, e non solo per il carattere abusato dell’espressione.

Si tratta, infatti, di un lessico politicamente del tutto corretto, che «rimette le cose in piedi» rispetto al mondo «a testa in giù» prodotto dall’economia discorsiva del presente. Un basso percorre, come sottofondo, molte delle voci: la rimozione del conflitto sociale, dell’esistenza di interessi contrapposti, a favore di un senso comune irenico e pacificato, che proietta il negativo verso un fuori geografico o culturale.

GLI ESEMPI POTREBBERO essere molti: si va da voci sulle parole chiamate a esprimere i modelli normativi del presente, «Agenda», «Azienda», «Flessibilità», «Progetto», «Risorse», a quelle più calibrate sul discorso politico. Fra queste si potrebbero citare le vicende dell’etichetta di «Riformista», consegnata a una nuova ed equivoca fortuna pur in presenza della «scomparsa» del termine «rivoluzionario», in opposizione al quale storicamente acquisiva significato, oppure «Governance», «Moderato» o «Strumentalizzazione».

Particolarmente acute, poi, sono le considerazioni sulla parola «attivista», di cui viene segnalata l’ascesa coincidente con il declino di un supposto sinonimo come «militante», ormai confinato ad appartenenze patologiche. Si tratta di un dato al tempo in cui scriveva Fabbri ancora embrionale, giunto oggi a pieno dispiegamento. La questione non è semplicemente legata alla penetrazione del lessico anglosassone, ma chiama in causa direttamente i modi di essere dell’azione politica e delle soggettività collettive.

Come chiosa Fabbri «curioso che la terminologia militare vada fuori corso proprio mentre la globalizzazione della guerra è in pieno corso!». Il riferimento era alle guerre di Iraq e Afghanistan, ma sembra valere a maggior ragione in una fase in cui la globalizzazione declina e la guerra imperversa in Europa orientale.