La Biennale di são Paulo ha annunciato i nomi degli artisti che parteciperanno alla 34/a edizione che si terrà dal 4 settembre al 5 dicembre. Sono novantuno provenienti da trentanove paesi e tutti i continenti (tranne l’Antartide), riuniti nel titolo Faz Escuro Mas eu Canto – dal poema Madrugada Camponesa (1965) di Thiago de Mello. Secondo il curatore generale Jacopo Crivelli Visconti, la mostra «stabilisce ponti tra opere e artisti che riflettono molteplici cosmologie, visioni, culture e momenti storici».

ISPIRANDOSI AL TESTO Poetica della Relazione (1991) di Édouard Glissant, e al concetto di perspectivismo ameríndio di Eduardo Viveiros de Castro e Tânia Stolze Lima, la rassegna afferma la necessità di abbandonare visioni chiuse e monolitiche, per aprirsi alla molteplicità di relazioni in continua evoluzione.
Il risultato è un elenco che presenta una distribuzione equilibrata tra artisti donne e uomini, 4% che si identificano come non binari, 10% di origine indigena, la più grande presenza di rappresentanti delle popolazioni indigene che sia mai esistita alla Biennale. Potrebbe essere un esempio per l’Italia.

IN OPPOSIZIONE a uno dei periodi più oscuri della sua storia, la produzione culturale e la gestione istituzionale dell’arte in Brasile sta dimostrando una stupefacente capacità di r-esistenza, in contrasto con il dibattito sulla necessità di decolonizzare istituzioni di arte e accademiche che, in Europa, sembra limitarsi all’ambito teorico. In Italia, il tema è riservato a una ristretta nicchia di specialisti, ancor peggio quello sulla restituzione degli artefatti africani, mentre se poco si sente parlare di artisti o curatori afro-italiani, il panorama degli autori indigeni è pressoché oscuro al pubblico italiano, anche delle arti visive. Così, anche la «parità di genere» – nello specifico (ma non solo) nell’ambito della produzione culturale, artistica, ed accademica – con la conseguente inadeguatezza italiana nell’affrontare la struttura capitalista, patriarcale, universale, coloniale, occidentale.

TRA GLI ARTISTI BRASILIANI di etnia indigena spiccano i nomi di Daiara Tukano, Gustavo Caboco, Jaider Esbell, Sueli Maxakali, e Uýra Sodoma. Il lavoro di Tukano (1982) – del popolo Tukano dell’Alto Rio Negro – fa riferimento a pratiche rituali indigene e alla cultura visiva delle sue visioni mistiche, hori. Oltre che artista è insegnante, e attivista per i diritti degli indigeni. È stata coordinatrice di Rádio Yandê, la prima web radio indigena del Brasile fondata da Anápuáka Tupinambá, Renata Tupinambá e Denilson Baniwa, quest’ultimo uno dei più noti precursori della arte indigena contemporanea brasiliana.
Cabloco (1989) rivive la sua identità indigena attraverso percorsi di ritorno alla comunità Wapishana della terra Canauanim (Roraima), unendo il personale al politico, il mantenimento della memoria con le possibilità del futuro. Esbell (1979) artista e scrittore appartenente al popolo Macuxi, dal 2013 ha assunto un ruolo centrale nel movimento dell’Arte indigena contemporanea.

IL SUO LAVORO INTRECCIA miti indigeni, critiche alla cultura egemonica, e preoccupazioni socio-ambientali. Maxakali (1976) è un’insegnante, artista e regista del popolo Maxakali. È la principale leader femminile dell’Aldeia-Escola Floresta Hãmkãim (Ladainha-MG) e curatrice di Mundos Indígenas (2019) presso lo Espaço de Conhecimento della Universidade Federal do Minas Gerais (Belo Horizonte). Uýra (1991), che ha fatto la sua performance a luglio al Castello di Rivoli, è figura fra le più curiose dell’attuale panorama brasiliano.
Si definisce un’entità ibrida, «un albero che cammina», risultante dall’intreccio della conoscenza scientifica della biologia alla saggezza ancestrale indigena. Il suo lavoro spazia dalle lezioni di arte e biologia, performance fotografiche, testi e installazioni. Tra gli artisti indigeni fuori dal Brasile, Abel Rodríguez (1944) nato nell’Amazzonia colombiana, dopo aver trascorso gran parte della sua vita nella foresta nei primi anni 2000 si trasferisce a Bogotà, e comincia a dedicarsi a disegnare la foresta, basandosi sulla sua memoria.

PIA ARKE (1958) figlia di padre danese e madre groenlandese, concentra il proprio lavoro sugli stereotipi occidentali dell’identità e della cultura Inuit per affrontare le relazioni di potere tra Danimarca e Groenlandia. Il Grupo Cultural Yuyachkani (1971) – in quíchua «sto pensando/mi sto ricordando» indaga, invece, il sincretismo della teatralità nelle tradizioni peruviane e nella cultura indigena, nel contesto politico del paese.
Se la rappresentatività degli artisti selezionati dalla 34/a Biennale di São Paulo può essere positivamente accolta, non si può negare che la sua equipe curatoriale continui a essere tutta costituita da bianchi. Diversamente accade in altri casi brasiliani come le curatele di Sueli Maxakali (Mundos Indígenas, 2019), Denilson Baniwa (ReAntropofagia, 2019), Naine Terena (Véxoa: Nós sabemos, 2020) e Sandra Benites (Histórias indígenas). La Biennale presenta, inoltre, un catalogo digitale coordinato dalla direttrice artistica del Macba di recente nomina, Elvira Dyangani Ose,
Gabi Ngobo, curatrice sudafricana della decima Biennale di Berlino sottolineava: «Non si può dire che gli artisti siano stati scoperti solo perché non sono conosciuti in Europa. Noi li conosciamo, si conoscono tra loro e sono noti nei loro paesi di origine»