Dimenticare le stelle, la via Lattea, la morbidezza giocosa delle nuvole e la luna. Lasciare le galassie al loro posto per tornare prepotentemente sulla terra. Se la scorsa Biennale si tuffava nella notte (anche della ragione) e nel sogno, la mostra di Okwui Enwezor che aprirà al pubblico il 9 maggio per proseguire fino al 22 novembre, volta pagina in maniera drastica, fustiga le aspettative mondane dello spettatore in Laguna e ha un solo elemento (invisibile) da sfoggiare: la coscienza critica, «filtro» con cui lanciare All the World’s Futures. «È l’abilità della forma nel costruire nuove visioni del mondo: definisce così il titolo della Mostra questo rigorosissimo studioso della contemporaneità. Anche se, al posto delle immagini intese in senso classico  – pittura, scultura, fotografia, installazioni -, lungo il percorso dell’esposizione che si snoda tra Corderie Arsenale  Giardini, e soprattutto nel Padiglione centrale, inseguiremo qualcosa di impalpabile eppure di grande potenza evocativa: la voce.

È una Biennale che ritrova l’oralità questa di Okwui Enwezor (nato nel 1963 in Nigeria, dal 2011 dirige l’Haus der Kunst di Monaco di Baviera) e trasforma la parola in un contrappunto visionario. Cornice quasi brutale di consapevolezza per ogni accadimento (una mostra scandita da interventi, un corpo vivente) sarà Il Capitale di Marx divenuto un oratorio, ripreso alla lettera come un testo drammaturgico declamato e declinato in performance, recital, reading, filmati, seminari, con la regia di Isaac Julien. L’idea è suggestiva, perché in quell’Arena che il curatore immagina come cuore della «passeggiata artistica» (una agorà profondamente politica, legata all’idea di cittadinanza), si leveranno molte voci, alcune cantilenanti, altre più impostate, tutte impegnate a scandire il ritmo della Storia.

okwui

Non è una Esposizione «facile» questa edizione 2015: al desiderio di fuga, alle tentazioni di tuffi esoterici oppone una progettualità di reazione che mira a coinvolgere tutti, braccando con perseveranza gli ignavi. «Le fratture che oggi abbondano in ogni angolo del mondo – spiega Enwezor – rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia, nell’Angelus Novus di Benjamin. Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla? I cambiamenti radicali verificatisi nel corso degli ultimi due secoli – dalla modernità industriale a quella post-industriale, dalla modernità tecnologica a quella digitale, dalla migrazione di massa alla mobilità di massa, i disastri ambientali e le guerre genocide, dalla modernità alla post-modernità, il caos e la promessa – hanno prodotto nuovi e affascinanti spunti per artisti, scrittori, cineasti, performer, compositori, musicisti…».

Per il curatore, l’intellettuale organico di gramsciana memoria ha subìto una necessaria evoluzione, spostandosi verso l’attivismo. L’ispirazione viene dal 1974, quando la Mostra internazionale di Venezia diede l’avvio a un programma intenso di documentazione e informazione sul Cile, in segno di solidarietà. La Biennale diviene allora un meeting articolato che affronta diverse questioni lasciate aperte dalla Storia. Oggi si può dire che quel testimone è raccolto e simbolizzato da un film (sei ore su dieci per la Mostra) come Das Kapital di Alexander Kluge, realizzazione di un progetto concepito alla fine degli anni ’ 20 da Eisenstein (che non riuscì ad avviarlo). Riprese originali, montaggio di materiali di archivio, interviste a intellettuali come Sloterdijk cercano di filmare Marx, riattualizzandolo.

Il Capitale, qui in Laguna, è sfogliato a cipolla, mentre aleggia ancora il pericolo della riduzione a «corpi-merce», l’alienazione da sé. La vera notte si sprigiona quando l’anima è asservita. Per combattere i fantasmi, Enwezor ha scelto alcuni numi tutelari; soprattutto, ha dato un valore fondativo – inedito per una Biennale visiva – alla parola. Nel percorso, troviamo dunque la voce di Pasolini che declama la poesia Guinea dove ci si sincammina verso un’altra bellezza, una via alternativa alla degradazione industriale del paesaggio naturale e intimo. L’artista Olaf Nicolai, invece, sceglie di lavorare sul dittico Non consumiamo Marx di Luigi Nono: da una parte, omaggio per voci e nastro magnetico a Cesare Pavese (Un volto, del mare), dall’altra, la registrazione della contestazione nelle strade del Maggio francese e durante la Biennale stessa, nel 1968. Il compositore e pianista americano Jason Moran farà ascoltare la sua raccolta di canti di detenuti, operai e contadini nei campi.

C’è pure una campionatura di «songs» dei condannati ai lavori forzati che arriva dal penitenziario di Louisiana, detto Angola (o Alcatraz del sud). Jeremy Deller (nel 2013 rappresentò la Gran Bretagna) non è da meno: porta a Venezia  Factory Songs, canzoni folk che cercavano di ammansire la rudezza delle condizioni nelle fabbriche, fin dai tempi della Rivoluzione Industriale del XIX secolo. L’indiano Madhusudhanan torna alla tradizione del disegno a carboncino, continuando il suo A Marx Archive – The logic of Disappearance con il capitolo nuovo della Penal Colony. È una serie – ispirata al racconto di Kafka – che prende spunto dalla tragedia Wagon del 1921, dove morirono di asfissia 67 prigionieri chiusi in un carro merci.
Com’è sua consuetudine, Enwezor prevede un itinerario con lunghe pause riflessive, ci vorrebbero mesi per elaborare e digerire questo mastodontico «piatto di offerte» (fu così anche per la sua Documenta 11). L’esposizione veneziana è disseminata di piccole antologiche dedicate ad artisti come Fabio Mauri, il cineasta sperimentale Chris Marker, Harun Farocki (un atlante delle sue opere, 87 film distillati ogni giorno), ma anche all’artista tedesco Hans Haacke (Anthology of Polls, 1969-2015), alla pittrice Marlene Dumas e al fotografo Walker Evans: Enwezor accoglie l’edizione originale di Let Us Now Praise Famous Men del 1941: una impressionante galleria di ritratti di famiglie che vivevano poveramente a mezzadria in Alabama, atroce reportage sulla caduta dell’American Dream.