Quando a inizio Novecento si sviluppò la psicoanalisi, nacquero tecniche artistiche come la scrittura automatica, il surrealismo e il flusso di coscienza per far emergere ciò che si nascondeva nell’inconscio. Oggi l’arte si propone un obiettivo analogo: portare alla luce l’immaginario di un altro «inconscio», l’intelligenza artificiale nascosta nel cuore delle macchine e degli algoritmi che ci organizzano la vita, le relazioni, i commerci.

Con questo obiettivo nasce Low form, la mostra curata da Bartolomeo Pietromarchi al Maxxi di Roma (fino al 24 febbraio 2019). Le installazioni e i quadri degli artisti utilizzano tecniche nuove, mutuate dall’informatica e dalla computer graphics, e tradizionali come la pittura su tela. Ma per esplorare l’inconscio delle macchine si possono usare le macchine stesse, lasciando a loro il compito di realizzare l’opera fuori dal controllo dell’artista, come fa la simulazione live dello statunitense Ian Cheng, i robot che dialogano in un linguaggio tutto loro realizzati da Emilio Vavarella o l’installazione video di Zach Blas e Jemima Wyman ispirata a Tay, un «chatbot» (un robot in grado di comunicare) spedito dalla Microsoft nella giungla dei social.

Più simile alle tecniche dei surrealisti il lavoro di Cheney Thompson, che realizza un’opera grafica a partire dalle informazioni generate da un algoritmo che simula al computer le variazioni dei titoli di borsa. L’interdisciplinarietà dell’approccio è esaltato da Lorenzo Senni, più noto come producer in ambito musicale, che al Maxxi espone un’installazione che unisce sonorità e visioni elettroniche, oppure i video del canadese Jon Rafman, che mettono lo spettatore di fronte alle pulsioni recondite a cui solo la computer graphics può dare forma. Gli incontri di contorno alla mostra inviteranno addetti ai lavori come il filosofo Luciano Floridi, il direttore di Wired Italia Federico Ferrazza o il sindacalista della Cisl Marco Bentivogli a interrogarsi sul ruolo delle macchine nella nostra società.