Se Palermo fosse un laboratorio per sperimentare nuove forme di convivenza, allora avrebbe la forma di una serra floreale dove si incontrano esseri umani e piante (pure carnivore) di ogni paese, intrecciando le loro antiche storie, in un fitto chiacchiericcio che non prevede frontiere temporali né geografiche.
È così infatti che quel Giardino planetario immaginato in omaggio a Gilles Clément e ai suoi paesaggi liberi da costrizioni e confini prestabiliti si sviluppa per le strade e i magnifici palazzi della città siciliana, perché la Biennale nomade di arte contemporanea Manifesta 12, che ogni due anni sceglie un posto europeo in cui rinascere, questa volta ha avuto una marcia in più. E da museo diffuso e ramificato si è trasformata in una enorme performance dei luoghi stessi (orto botanico, palazzi fatiscenti, in disuso, spesso inaccessibili alla cittadinanza, archivio di stato, chiese e oratori), compreso lo Zen dove Clément, insieme al collettivo Coloco ha aiutato gli abitanti a riqualificare la terra intossicata con mandorli, limoni e piante officinali. Riprendersi la propria casa: un’utopia di reinvenzione verde in uno spazio difficile che dovrà dar prova, nel tempo, di una resistenza non comune.

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PALERMO COME «SET» per i circa cinquanta progetti presentati (senza contare la selva di iniziative collaterali) è stata una scelta felice, rivelandosi mèta imperdibile e un incentivo al viaggio dentro quel Giardino umanistico che sicuramente ha stupito, per la sua capacità di richiamare l’attenzione, anche i Creative Mediator della rassegna – Bregtje van der Haak, giornalista e filmmaker olandese, Andrés Jaque, architetto e ricercatore spagnolo, Ippolito Pestellini Laparelli, partner dello studio Oma di Rotterdam, Mjriam Varadinis, curatrice svizzera. Manifesta 12 ha invaso soprattutto il quartiere arabo della Kalsa e l’arte contemporanea – quasi sempre una presenza aliena, espulsa dal corpo-città che la ospita – ha coinvolto la popolazione con alcune performance ad alto tasso partecipativo: il carnevale da processione di Matilde Cassani, la «sfilata» con momenti coreografici delle associazioni di quartiere orchestrate da Marinella Senatore e il sincretismo siculo-nigeriano di Jelili Atiku, tra feticci africani e tradizione. Intorno ai momenti di festa, entrando e uscendo da residenze puntellate, abbandonate o in piena attività di restauro (come il bellissimo Palazzo Butera davanti al mare) si discuteva e lavorava principalmente su due temi: i drammatici flussi migratori con le annesse politiche securitarie – dal riconoscimento identitario via algoritmo al rifiuto del controllo territoriale di attivisti – e la nostalgia delle radici storiche, sia vegetali che culturali. Nostalgia come nostos, ritorno letterario alle proprie fonti. Molte installazioni avevano come perno un’ecologia dell’accoglienza, la stessa a cui ha fatto appello il sindaco Orlando Leoluca quando – per salutare l’apertura di Manifesta 12 – ha detto che a Palermo non esistono migranti, ma solo cittadini siciliani. Un incipit di conferenza stampa che, di questi tempi, sembrava quasi incendiario.

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FRA I MENESTRELLI più attivi nel recupero di frammenti per completare il puzzle del passato, ci sono i Masbedo. Nei mesi precedenti l’inaugurazione di Manifesta hanno girato sul loro «video-carro» itinerante, tipo quelli circensi e dei saltimbanchi, per raccontare i mestieri di Palermo, il cinema e le ferite del territorio: una narrazione poetica che ricuce i fili spezzati della società siciliana. La medesima che presso l’archivio di Stato, in mezzo a faldoni centenari trasformatisi in fragili sculture di polvere, si risolleva e si ritrova compatta nelle gesta e parole di un pupo di Cuticchio che ricorda la persecuzione politica toccata a un regista come Vittorio De Seta (Protocol no. 90/6).
La brasiliana Theresa Alves che lavora sul concetto di «autoctono» da anni – studia i semi trasportati dalle suole dei migranti sulle rive di altri paesi, mentre fanno sbocciare piante «straniere» – si è concentrata qui sulla ceramica locale. Ha acquistato sulle bancarelle dei mercatini alcune piastrelle e ha rinvenuto in quella iconografia mista (pappagalli, fichi d’India, alberi di Jacaranda) la stratificazione di una storia non sempre scritta nei libri ma che ha seguito rotte umane e desideri. La sua esplorazione è, come scrive lei stessa tra le ceramiche nella targa-monito, Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio).

AL SUO ATTO di rinvenimento quasi magico di simboli comuni a più culture risponde anche – nella cornice del magnifico Palazzo Forcella De Seta – l’olandese Patricia Kaersenhout. Una enorme montagna di sale campeggia nel bel mezzo di una sala tutta decorata: è la rappresentazione fisica di The Soul of Salt, quella leggenda caraibica degli africani volanti che gli schiavi si tramandavano per sognare la fuga. Vietato mangiare sale per rimanere leggeri e pronti al volo. Ai visitatori di Manifesta si chiede di portarne via una manciata per scioglierlo, una volta a casa, nell’acqua insieme ai dolori. Un gesto che nessuno dei presenti, superstizioso o meno, si è negato.
Al logos antropocentrico e arrogante che ha risucchiato il pianeta in un vortice di distruzione, si contrappongono le piante sensitive – alberi, fiori, erbe aromatiche, semi – e anche gli animali con la loro saggezza alla Esopo. Nel settecentesco Calidarium dell’Orto botanico, la natura trova nuovi spazi nella biblioteca permanente con annessa sala espositiva nata grazie all’associazione Radiceterna, in collaborazione col Sistema museale di ateneo dell’università di Palermo (fra gli eventi collaterali). Vi si indaga il rapporto di amore e odio tra arte e ambiente con un progetto di Valentina Bruschi e Ignazio Mortellaro che parte dai 37 libri di Plinio Il Vecchio per approdare alle creazioni di alcuni artisti contemporanei.

LA PRIMA È IL POTENTE VIDEO di Allora&Calzadilla The Great Silence che ha come voce narrante un pappagallo di una specie in via di estinzione. Vive a Arecibo, Portorico, dove l’essere umano negli anni 70 ha installato una macchina per captare segnali extraterrestri dall’universo. Una visione onirica incerta, che s’infrange sulla possibilità di apprendere i linguaggi «altri», senza commettere delitti e colonizzazioni. Il colombiano Alberto Baraya è più fiducioso sulle trame da imbastire tra «diversi». Lui ha setacciato Palermo in cerca di erbe, raccogliendo anche i fiori votivi lasciati sugli altari. Ha riportato in serra un erbario artificiale che collega insieme gesti rituali (umani) con pedigree di presenze vegetali isolane. Il risultato è quel Giardino planetario – pure nomade e tentacolare – cui la Biennale tende con una buona dose di ottimismo.