Può una intervista essere un piacevole, privato dialogo che permetta alla vittima, l’intervistato, di confessarsi, esaltarsi per le proprie idee ardite, negare e denunciare senza mezzi termini, fare intelligenti previsioni sul futuro, e persino ridere? Malgrado la diffidenza di tanti scrittori, l’intervista può offrire ai posteri un complesso autoritratto d’autore, se ne è complice e regista un intervistatore eccezionalmente preparato. Proprio questo avviene in Odio sentirmi una vittima Intervista a Susan Sontag su amore, dolore e scrittura di Jonathan Cott (traduzione di Paolo Dilonardo, il Saggiatore, pp. 163, euro 20, 00).

Autore anche di altre interviste-conversazioni con John Lennon e Yoko Ono, Glenn Gould, Leonard Bernstein, Jonathan Cott aveva pubblicato nell’ottobre del 1979 un terzo di questa intervista a Susan Sontag su Rolling Stone, mentre la versione italiana è condotta sul testo completo, pubblicato solo nel 2013 dalla Yale University Press. Perché sono trascorsi trentaquattro anni prima di poter leggere il testo completo in cui Sontag parla delle proprie provocatorie scelte politiche, culturali, sessuali con sincera passione e ferma ragione? Diversamente da quando accadeva nell’intervista titolata «The Art of Fiction», comparsa nel n. 143 della Paris Review, in cui Edward Hirsch interrogava con piglio positivista una Sontag sulla difensiva, qui Cott ha il grande merito di mettere a proprio agio il suo soggetto e di rivelarsi un ascoltatore ben informato, attento a stimolare le idiosincrasie della raffinata intellettuale ebrea newyorkese-parigina, anzi cosmopolita.

Susan Sontag si sottrae ai tanti luoghi comuni che fissano gli scrittori nel firmamento immaginario del lettore medio, e interpreta dunque l’antitesi di Jack London, ovvero dell’americano incline all’azione a tutti i costi. Basterebbe scorrere su Vikipedia la lunga voce «Sontag» per trovare la prova di quanto il suo culto sia stato e sia tuttora officiato da scelti lettori, ma anche osteggiato da esasperati detrattori. Come lei, i suoi lettori ideali erano in cerca di un altrove ideologico, erano «nomadi nella Terra di Nessuno». Negli anni sessanta le famose «Note sul Camp», contenute in Contro l’interpretazione, infiammarono i suoi primi lettori. «Lo sguardo camp ha effettivamente il potere di trasfigurare l’esperienza… l’arte camp è spesso decorativa, e mette in rilievo la texture, la sensualità della superficie e lo stile, a spese del contenuto … È l’estrema estensione, sul piano della sensibilità, della vita-come-teatro»: l’adorato Wilde era sempre sempre lì, alle spalle, a suggerire.

A quel tempo, Gabriele Baldini, che dirigeva il nostro piccolo Istituto di Inglese a Roma, mi mise al lavoro sul canone camp deciso da Sontag, che conteneva il romanzo breve Zuleika Dobson di Max Beerbohm, e il poema Il ricciolo rapito di Alexander Pope, mentre Manganelli scriveva su Firbank e Ivy Compton-Burnett. Quanto a Baldini, in segreto vergava poemetti alla Tennyson e metteva il creaturale Falstaff al posto del concettuale Amleto. Ancora nel 2008 se ne discusse in un grosso volume di «Riga», Pop Camp, curato da Fabio Cleto, con lo scritto-manifesto di Sontag e le polemiche che ne seguirono.

Dal 1974 al 1977 Susan Sontag si era sottoposta a un’operazione chirurgica e alla chemioterapia per un cancro al seno. Due anni dopo, quando già era stato pubblicato il saggio Sulla fotografia, e stava per andare in stampa Malattia come metafora, Jonathan Cott decise che era tempo di proporre alla scrittrice americana una intervista-conversazione. Non era il pubblico a interessare Susan Sontag, ma il faccia a faccia con un individuo che fosse in grado di conoscere anche i suoi pensieri. Aveva scritto nella «Lettera a Borges»: «I libri non sono soltanto la somma arbitraria dei nostri sogni e della nostra memoria. Ci offrono anche un modello di trascendenza … C’è chi pensa che la lettura sia soltanto una forma di evasione. I libri sono anche molto di più. Sono una maniera per essere pienamente umani». Nell’intervista aggiungerà: «Per l’uomo la trascendenza non è solo un bisogno, è la capacità di accedere a sentimenti più profondi, a una maggiore sensibilità e, in un modo o nell’altro, è stata sempre descritta in termini religiosi … Oggi invece ci resta ben poco: i due fenomeni che associamo alla spiritualità, dopo il tracollo della fede religiosa, sono l’arte e la malattia».

Dall’intervista viene fuori come nei rapporti sessuali con uomini o con donne, secondo l’ideale ermafrodito camp, Sontag non ha evitato la sindrome del «cuore spezzato»; riconosce, invece, che la sessualità, quando spinta agli estremi, è un’esperienza insondabile e anarchica, difficile da comprendere. L’analisi della estrema mortuaria fascinazione dei simboli nazifascisti e dei loro derivati («Il suo colore è il nero, il suo materiale è il cuoio, la sua seduzione è la bellezza, la sua giustificazione è l’onestà, il suo scopo è l’estasi, la sua fantasia è la morte») si associa a quella dell’aggressività umana («Vivere è un’aggressione … occupiamo uno spazio che altri non possono occupare, calpestiamo flora, fauna e piccole creature»). La razza bianca – afferma perentoria Susan Sontag – è colpevole di aver colonizzato il mondo. E continua denunciando i falsi miti di cui ci alimentiamo.

Sarebbe arbitrario e impoverente, per lei, dividere la sua storia in decenni (gli anni sessanta, settanta, e così via), ideologicamente etichettati secondo una ipotetica tendenza dominante. Quel che resta costante è la sua difesa della marginalità, della ricchezza civilizzatrice che essa contiene: bisogna accettare non solo persone e stati di coscienza liminali, ma anche quelli insoliti e devianti, ci ha insegnato. Dalla marginalità Susan Sontag deriva un principio estetico, che severamente applica al proprio lavoro: «mi sforzo di salvaguardare la mia marginalità, distruggendo ciò che ho fatto, o cercando di fare qualcosa di diverso. Non appena mi accorgo che qualcosa funziona, non voglio più farla».

Nel suo audace attacco all’interpretazione, del 1961, conclude: «Al posto di una ermeneutica abbiamo bisogno di una erotica dell’arte»: ecco il perché del deferente ma pigro interesse degli accademici per la sua opera. Con l’avanzare dell’età e della conversazione Sontag arriva all’elogio del frammento, e fa un passo indietro per slanciarsi in avanti: «C’è una ragione per cui il frammento, a cominciare dai romantici, è divenuto la forma d’arte per eccellenza, quella che permette maggiore verità, autenticità, intensità. Ci sono momenti privilegiati di piacere e di intuizione, e ci sono cose più intense delle altre perché nella nostra vita e nella nostra coscienza viviamo in molti luoghi diversi». E ancora: «Ho l’impressione che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero». Questo ritorno a istanze romantiche si accompagna, tuttavia, a un severo atteggiamento etico, alla ricerca essenziale della verità… «qualcosa che ci si può ritagliare attraverso il rifiuto della falsità». Susan Sontag difende la scrittura disadorna della favola e della parabola, della ascetica esperienza di quei romanzieri francesi come Robbe-Grillet che evitavano il ricorso alle metafore, oggetto di una sua antica querelle: «Quel che più mi interessa nella scrittura modernista, d’avanguardia o sperimentale, o semplicemente della buona letteratura, è la purificazione dalla metafora. È la qualità che mi attrae in Backett o Kafka … Le metafore sono essenziali al pensiero, ma bisognerebbe usarle senza crederci».

Alcuni scrittori lo fanno, e abilmente costringono le menzognere metafore a innalzare oniriche, illusionistiche storie fantasmagoriche.