Tamu edizioni non perde un colpo e si conferma tra i più interessanti progetti editoriali. Iain Chambers, bell hooks, Marielle Franco, Saidiya Hartman: nomi che siglano pagine dirimenti per il dibattito critico, non solamente in Italia.
Senza contare Arabpop, rivista di arti e letterature arabe, e Trame, collettaneo sulle ecologie politiche del presente. Opere che eccedono lo sguardo contrappuntistico proposto da Edward Said, che mostrano altre geografie del presente. Invisibili, periferiche, liminali e capaci di problematizzare le forme di sapere e di potere, spingendosi oltre la soglia della decostruzione.

TESTI COLMI DI ROTTURE, sospensioni e dissonanze, dunque non lineari, non circolari, in cui l’interpretazione – lo sguardo – non è conseguenza del rapporto causa-effetto, ma riguarda altre modalità di produzione del sapere. Ricordano il jazz-fusion di Miles Davis in On the corner, o l’interfaccia digitale con cui Emeka Ogboh cattura il rumore della metropoli, la voce di Lagos, e lo trasforma in musica.

Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred Moten (Tamu, pp. 246, euro 15), si colloca nell’alveo di questo fiume carsico e potentissimo di teoria critica. Technoculture Research Unit (Tru), che sigla l’introduzione, spiega etimologicamente gli undercommons come combinazione del pensiero e delle pratiche radicali nere e del post-operaismo.

DA UN LATO, dunque, è evocata l’underground railroad, la rete sotterranea che, sul chiudersi del Settecento e fino alla fine della guerra civile, permise agli schiavi di raggiungere il Nord, cercando la libertà. Dall’altro, il riferimento è a Marx e alle enclosers come segno della genesi del capitalismo. Gli undercommons, si legge, «ci invitano a vedere i commons dal punto di vista dei colonizzati e il lavoro dal punto di vista dello schiavo».

Il volume, la cui traduzione è a cura di Emanuela Maltese, si compone di testi differenti: la già citata introduzione, a cui segue il contributo di Jack Halberstam che descrive il luogo epistemologico – definito «selvaggio» e dunque dell’oltre – degli undercommons. Ci sono poi sei capitoli su politica, università, nerezza, debito e studio, pianificazione e policy, sul potere della fantasia. L’antagonismo generale è il titolo dell’intervista di Harney e Moten a Stevphen Sukaitis. Chiudono i riferimenti bibliografici e una sezione con riflessioni della Tru su studio e traduzione con e per gli Undercommons.

È UN TESTO NON FACILE, ostico nella lettura, che costringe spesso a fermarsi, a tornare indietro e rileggere, ma anche intuitivo e rivelatore se si ha la pazienza di superare lo straniamento derivante dall’apprendere che l’alternativa è parte del problema stesso, che c’è un altro spazio – spesso non attraversato – dell’immaginazione e dell’analisi politica.
È, altresì, un testo provocatorio, che sfida chi legge, che genera spaesamenti proprio perché ricerca nella dissonanza musicale un pari nel pensiero critico. E lo fa con la capacità di tenere insieme traiettorie diverse del pensiero radicale. Riflette sulle contraddizioni del presente e propone strategie, di critica della rappresentanza.

Un esempio: l’accademia. Il plusvalore elaborato in università è, in molti casi, sottratto alle comunità minoritarie in cui viene prodotto pensiero critico trasformativo che spesso è tradotto – nel senso di ripulito, risistemato e disciplinato – dallo stesso lavoro accademico.

L’UNIVERSITÀ OPPOSTA alle carceri? No, perché entrambe sono coinvolte, a loro modo, nella riproduzione sociale e nel controllo dell’individuo. Per Moten e Harney è centrale «il rifiuto del primo diritto» – formula ripresa da Gayatri Spivak – ossia il rifiuto delle scelte offerte. L’abolizione delle carceri non può essere l’obiettivo; lo è, invece, «l’abolizione di una società che potrebbe avere le carceri, che potrebbe avere la schiavitù, che potrebbe avere il salario, e pertanto l’abolizione non come eliminazione di qualcosa, ma abolizione come fondazione di una nuova società».

Per Moten e Harney è necessario muoversi in un orizzonte di possibilità che critica l’istituzione in sé. «Non si può entrare nell’università – scrivono – se non furtivamente e, una volta dentro, rubare tutto il possibile, abusare della sua ospitalità, ostacolare la sua missione per unirsi alla sua colonia di profughi, di rifugiate, al suo campo nomade».
Essere nell’università, non dell’università, riconoscendo il meccanismo attraverso cui l’istituzione tenta di fagocitare la carica radicale e sovversiva, di acciuffare i fuggiaschi – come nuovi maroons – e di arruolarli attraverso la cooptazione, da un lato, e di educarli con la professionalizzazione, dall’altro.