A Venezia, nel 2005, la Fiat ha venduto un immobile settecentesco, sede di un centro d’arte prestigioso, a un imprenditore e collezionista francese, François Pinault. Il nome è rimasto «Palazzo Grassi». In pochi anni, con la ristrutturazione dell’edificio (2006), l’acquisizione e la riqualifica dell’ex porto della città per un secondo spazio espositivo, Punta della Dogana (2009), fino al recupero del Teatrino del Palazzo (2013), questo nome è divenuto un «discorso di marca» innestato nel territorio e che sta trasformando Venezia. I restauri, condotti da Tadao Ando, in dialogo con il Comune e la Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici, si inscrivono in una logica di continuità architettonica e di reinvenzione del passato.

L’impresa, francese ma di respiro internazionale, scommette su Venezia per diffondere il proprio «prodotto»: la collezione d’arte contemporanea di Pinault come bene di scambio culturale, immateriale. Perciò non si snatura la destinazione prima del Palazzo, mentre ha valore, leggibile in filigrana nel restauro, il mutamento della Dogana da Mar, deputata ai traffici commerciali, in un luogo di transizioni e transazioni simboliche. Tante le iniziative che indagano l’attualità, attraverso l’arte, nell’incontro con cittadini e forestieri: mostre, conferenze, proiezioni, letture, concerti, performance, atelier didattici per scuole di ogni ordine e grado. Palazzo Grassi va controcorrente sia rispetto allo smercio del made in Italy oltralpe, sia rispetto a un uso feticistico di Venezia – vetrina per merce contraffatta, scadente o molto costosa – che le autorità locali avversano poco.

Martin Bethenod
Di tutto questo parliamo con Martin Bethenod, direttore e amministratore delegato dell’istituzione dal 2010.

Cosa permette a Palazzo Grassi di far funzionare un bene privato nella sfera pubblica?

Non c’è una formula matematica. La positività credo derivi dall’intendere questo brand come un progetto condiviso: con Venezia e il suo territorio; con altre istituzioni e protagonisti dell’arte in Italia e nel mondo. Sul territorio: la Dogana era un’architettura inutilizzata, in stato di abbandono. Pinault l’ha resa un luogo agibile di produzione e scambio culturale, che resta aperto quando la prima sede, Palazzo Grassi, è in allestimento. E viceversa. Siamo un ente privato e siamo francesi, cioè non giochiamo in casa. Abbiamo dunque bisogno di farci apprezzare. Punta della Dogana ospita mostre per periodi lunghi, fino a un anno e mezzo, rispecchiando la logica che è alla base del nostro progetto: la resistenza alla tirannia del tempo breve. Altrove, a Parigi o Londra, la tendenza all’ipercomunicazione dà un ritmo vertiginoso agli eventi d’arte, che perciò difficilmente sedimentano. Qui, nell’ambiente urbano in apparenza più effimero, del consumo mordi e fuggi, si può invece lavorare a lungo termine. Il Teatrino, terzo step del progetto, risponde a questa esigenza di approfondimento, espressa da una cittadinanza in attesa di un’educazione all’arte. L’opera non è solo qualcosa che si (di)mostra esponendola. Anzi, si attiva e comincia a vivere nel confronto con chi la osserva.

Venezia è una città dove, in genere, niente si può toccare o cambiare radicalmente. Ne avete avuto conferma quando è stato rivendicato il demanio di Punta della Dogana. Il riferimento è alla querelle sul «Ragazzo con la rana» di Charles Ray, messo al posto del lampione ottocentesco… Come vi misurate con i conservatori della città?

Palazzo Grassi condivide vari progetti con altre istituzioni della città, Musei Civici e Fondazione Giorgio Cini, ad esempio. Un modo facile per misurare l’indice di gradimento e la nostra pregnanza è poi il seguente: il primo giorno di ogni mostra e tutti i mercoledì le sedi espositive di Palazzo Grassi sono aperte gratuitamente ai veneziani. Ebbene, sono 1500-2000 i visitatori locali che arrivano per le mostre e 180-200 ogni mercoledì. A meno che a frequentarci in questo giorno settimanale, cioè 52 volte all’anno, non siano sempre le stesse persone (!), il risultato è eloquente. Sulla statua di Charles Ray mi piace ricordare che molti ne hanno vissuto con dolore l’asporto, perfino piangendo. Alcuni hanno cambiato idea. Una risonanza tutta veneziana, non prevista all’origine, che oggi appartiene al significato del Boy with Frog.

Fin da subito avete stretto accordi con le Università locali…

Le nostre iniziative nascono in collaborazione con Atenei, associazioni, Fondazioni, per incrociare pubblici diversi. Le Università sono partner naturali nel costruire programmi di lettura e comprensione dell’opera d’arte contemporanea. Si impara reciprocamente. Insieme a Ca’ Foscari si è anche approfondito il senso del ruolo del mediatore, con stage formativi di competenze da integrare a quelle universitarie. Così i mediatori sono intervenuti nel programma di incontri L’opera Parla, mostrando la differenza fra la lezione dell’accademico e il punto di vista di chi ogni giorno fa esperienza delle attese dei visitatori.

Alla Fondazione Cini, aprirà in aprile una mostra, che vede la sua collaborazione, sulle opere dei fratelli Laura de Santillana e Alessandro Diaz de Santillana, discendenti della dinastia vetraria dei Venini. A Venezia, spesso arte e artigianato non comunicano…

La mostra rientra nel progetto Stanze del vetro, che finora ha realizzato eventi di qualità, coinvolgendo artisti che lavorano questo incredibile materiale. Bisogna andare avanti verso modalità di confronto fra artisti e artigiani. In Francia si sperimentano soluzioni del genere in diversi settori: spiccano il Centro di ricerca Craft sulla porcellana, i programmi del Mobilier National sugli arazzi, il centro Cirva sul vetro. Venezia, con le sue plurime tradizioni, potrebbe essere un riferimento per sinergie complesse.