Non è un caso ovviamente che questa intervista la celebriamo a Kristiansand, nel sud della Norvegia, durante i giorni del Punkt Festival. Alessandra Bossa oramai vive, insegna e suona, facendo base in questa piccola cittadina scandinava. Ma, essendo titolare di una vera e propria biografia da apolide, non è detto che sarà così per sempre…

Partiamo dalle tue città…
(ride, ndr)… la lista è lunga, ma non lunghissima: Napoli, Roma, Göteborg, Torino, la Lapponia svedese, Kristiansand.

Ecco, appunto… Dunque tutto è iniziato a Napoli. La miccia del tuo iter musicale possiamo collocarla lì?
Direi proprio di sì, la mia infanzia e la mia adolescenza le ho vissute nella provincia di Napoli, poi a Napoli ho frequentato il conservatorio e ho cominciato a sentirmi parte della scena della città: intorno ai vent’anni organizzavo festival e suonavo il pianoforte in ensemble di musica classica. Poi mi sono diplomata e ho preso la specializzazione, sempre al conservatorio di San Pietro a Maiella.

Ti è servita?
In parte sì, in parte è stata un’esperienza molto pesante. Lo studio della musica classica ti impone una disciplina che ti obbliga a stare al pianoforte otto ore al giorno. Era forse troppo per il livello che riuscivo a raggiungere io. Non ero una grande pianista classica, anche se c’era un repertorio specifico in cui me la cavavo già all’epoca molto bene…

Ossia?
Musica contemporanea molto ritmica. Ho approfondito per qualche anno il repertorio del compositore argentino Alberto Evaristo Ginastera. Alcune sue composizioni mi consentivano di approcciare il pianoforte come se fosse una batteria o un set di percussioni.

Poi da Napoli ti sei trasferita a Roma…
Via Siena però. Nel senso che un’estate ho fatto un corso di Siena Jazz e ho incontrato un po’ di musicisti romani che sono diventati il mio primo cerchio magico nella mia esperienza romana. A Roma poi ne ho conosciuti subito anche altri. In quel periodo ho fatto anche l’abilitazione per l’insegnamento. Mi sono insomma inserita bene nella scena romana: suonavo, studiavo, mi preparavo ad insegnare.

E però?
E però poi, siccome «niente è abbastanza» e sentivo sempre il bisogno di qualcosa in più, di diversità, di nuovi scenari, decisi di andare a Göteborg e mi iscrissi alla Royal Swedish Academy of Music, dove c’era anche un corso di improvvisazione. In Svezia ho capito molte cose di me e di quello che volevo fare. Intanto che non ne volevo più sapere della musica classica. Ho suonato con un quartetto, proprio all’Accademia, e ho pensato tra me e me: «Ecco questa è l’ultima volta che suono questa roba». Lì è cominciata la mia esplorazione di sonorità elettriche: registravo suoni, cercavo di modificarli, aggiungevo coloriture timbriche alla tastiera, anche in modo artigianale. E il mio strumento mi sembrava di nuovo un giardino da esplorare. La Svezia in questo senso, per me, ha rappresentato la svolta. E anche il modo in cui si suona lì è stata una scoperta. Molto diverso da Napoli e Roma, dove spesso si suona come si chiacchiera: ci parliamo sopra, tendiamo ad esondare. Invece a Göteborg ho scoperto l’arte dell’attesa, la modalità di aspettare l’altro musicista prima di partire in quarta. Ho insomma cominciato a capire l’arte dell’ascolto, che è fondamentale se vuoi diventare un buon musicista.

E un incontro importante lì?
Ho collaborato per un paio d’anni con il Broz (insegna che si ispira a Peter Brozman), un collettivo di musicisti che si dedica all’improvvisazione, più o meno radicale. Ogni mercoledì c’erano delle session d’improvvisazione e da lì sono passati personaggi d’ogni tipo, non solo jazzisti e non solo musicisti. Anche danzatori, attori, videomaker… è stata davvero una bella palestra.

Ma anche a Göteborg a un certo punto ti è tornata la smania, chiamiamola così…
Chiamiamola pure così. Nonostante fosse un ambiente che mi affascinava tantissimo, in effetti c’era una parte di me, che non era ancora pronta per la Scandinavia, perché sentivo un approccio diverso, un distacco, non riuscivo a connettermi veramente con le persone. Siccome avevo fatto l’esame di abilitazione per insegnare musica in Italia, ho ricevuto una chiamata da Torino per andare a insegnare lì e ho accettato. E anche lì sono successe tante cose, in primis la collaborazione con un altro collettivo: Superbudda. Parliamo del 2010-2011, a Torino c’erano un bel fermento e con amici musicisti ne ho creato un altro di collettivo, GreenBroz.

Tanti collettivi nel tuo percorso…
Sì, e continua a sembrarmi un bel modo per mettere idee in circolo e far crescere la scena di un posto. La differenza che ho visto tra Italia e Scandinavia è che al nord, dopo un po’, se dimostri di essere davvero propositivo e di fare cose, ti arrivano subito anche i finanziamenti, in Italia anche se hai svolto un lavoro meritorio, non succede quasi mai.

Allora dal punto di vista della tua formazione strumentale cos’era cambiato…
Beh, i device elettronici del mio set erano decisamente aumentati, stavo già utilizzando Ableton, processavo il pianoforte, stava diventando tutto più complesso, con i controller e molti altri «aggeggi»…

Qual è stata la scoperta vera di quegli anni dal punto di vista operativo?
È stato sorprendente cominciare a utilizzare il computer nei live e processare i primi suoni direttamente, creare altre «texture» molto più aperte, scoprire che appunto il pianoforte era quello strumento-orchestra che tutti i miei insegnanti mi raccontavano, ma che io, senza le aggiunte timbriche elettroniche, non ero riuscita a valorizzare.

Qualche anno a Torino e poi la Lapponia svedese…
È stata una scelta un po’ estrema, legata alla voglia di viaggiare e alla mia solita smania. Giravo i paesini della Lapponia svedese per insegnare synth-ipad ai bambini e ai ragazzi. A volte guidavamo per ore, per arrivare in un piccolo villaggio, dove nelle scuole c’era magari una classe unica, con bimbi e ragazzi di età diverse. Io facevo base in un piccolo paesino, Jallivare, a un’ora da Kirun e a soli 100 km dal circolo polare artico. Un’esperienza esotica: sei mesi di luce e sei mesi di buio, aurore boreali pazzesche, freddo polare… Insegnavo più che suonare, ma ho trovato anche lì un collettivo (ride, ndr) – si chiamava Cluster – con cui organizzavamo molte cose. Ci sono rimasta tre anni.

Con O-Janà invece quando si è accesa la miccia?
Ludovica (Manzo, ndr) l’ho incontrata quando ero a Göteborg, il duo è nato poco dopo, ma oggi davvero è una parte di me, una cosa preziosa. Io e Ludovica ci conosciamo talmente bene che quando suoniamo non abbiamo bisogno di accordarci praticamente su niente. Il metodo che ci siamo date parte sempre da qualcosa di improvvisato, che ci è piaciuto e che decidiamo di formalizzare e far diventare un brano riproponibile in concerto o su disco.

Dopo la Lapponia sei tornata a Napoli e poi in piena pandemia hai scelto di nuovo di puntare verso Nord…
In realtà mi sono iscritta al master di musica elettronica a Napoli, ma poi grazie a un Erasmus ho dirottato i miei studi a Kristiansand e ho conseguito la specializzazione lì. Era tanto che volevo conoscere e collaborare con il titolare di quel corso, il musicista Jan Bang, che è anche uno dei direttori artistici del meraviglioso Punkt Festival. Non solo l’ho intercettato, ma dopo qualche tempo Jan (che era oberato di impegni), ha affidato a me e a Christian Isaksen la gestione del Punkt Ensemble, nonché la cattedra di «Live Electronics» all’università. Il tutto è coinciso con l’approfondimento della tecnica del live remix (teorizzata proprio da Jan Bang e dalla sua cerchia). È una tattica performativa che allarga molto le griglie espressive, anche quelle del computer. Tutto si apre, si amplifica, il suono viene processato seduta stante; è dunque davvero materia viva che viene registrata. Uso quei suoni e nello stesso momento sto già facendo il re-sampling di quel materiale. Da quando ho capito come potevo usare creativamente questi processi, mi sono sentita così sicura che ho incluso, oltre al pianoforte e all’elettronica, anche la mia voce. Ed è questa la strada che seguirò anche in futuro.

LA BIOGRAFIA
C’è tanta carne al fuoco nella storia professionale di Alessandra Bossa. Ha fatto parte di numerosi collettivi in Italia e all’estero. Si è divisa tra la scena scandinava e quella italiana e oggi condivide un duo con Ludovica Manzo, O-Janà (con due album all’attivo: Inland Images, 2018 e Animal Mother, 2023) e uno con Christian Isaksen (un remix di un brano di Nils Petter Molvaer già edito e un album in preparazione). Nel frattempo ha iniziato una collaborazione con la cantante norvegese Torun Eriksen che dopo molti album acustici ha voluto coinvolgere Alessandra per allargare il proprio pannello timbrico anche all’elettronica (l’album uscirà per la Jazzland di Bugge Wesseltoft). Al momento insegna all’Università di Kristiansand e fa parte stabilmente dello staff del Punkt Festival.