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L’arte battagliera di Navjot Altaf

L’arte battagliera di Navjot AltafNavjot Altaf, particolare di un poster degli anni settanta (foto di Manuela De Leonardis)

Mostra Al Pav di Torino, fino al 16 febbraio, le opere dell'artista indiana tra ecologismo e femminismo

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 28 dicembre 2019

Intolerance leads to violence (l’intolleranza porta alla violenza), si legge tra gli slogan dei 126 manifesti dell’installazione Wheelers Book Stall Re-visited: un’opera del 2018 che, attraverso la coscienza politica di Navjot Altaf, riporta momenti del passato in un contesto di contemporaneità. L’arte è strumento di affermazione e difesa dei diritti civili per l’artista multidisciplinare indiana a cui il PAV – Parco Arte Vivente Centro di Torino dedica la prima mostra personale in Italia Samakaalik: Democrazia della Terra e Femminismo, a cura di Marco Scotini (fino al 16 Febbraio 2020). In mostra, insieme alla documentazione del progetto Nalpar, iniziato nel 2000 nel distretto di Bastar (Chhattisgarth, India centrale), tra i lavori che denunciano più esplicitamente violenze e soprusi del governo e delle multinazionali ai danni delle comunità indigene e delle minoranze, sono presenti i video Body City Flows (2015), Soul Breath Wind (2014-18) e Trail of Imounity (2014).

Qual è il senso della parola «samakaalik» presente nel titolo della mostra?In hindi samakaalikin significa simultaneo. La terra è uno spazio democratico e le questioni legate ad ecologia e ambiente, come la liberazione delle donne con il movimento femminista sono una sfida che in India è avvenuto nello stesso momento. La società ne ha preso coscienza per la prima volta negli anni Settanta ed ora, finalmente, sta succedendo qualcosa. A quell’epoca, nei villaggi indiani, le donne hanno cominciato a protestare in maniera molto naturale per difendere e proteggere le foreste dal disboscamento. Anche guardando indietro alla storia, le donne sono sempre state più in contatto con la natura, erano quelle che raccoglievano mentre gli uomini cacciavano. Naturalmente questo non significa che gli uomini non erano sensibili – alcuni lo erano particolarmente – ma anche nella metodologia del lavoro le donne hanno sempre avuto più attenzione al rapporto con la natura, a partire dalla conoscenza del cibo commestibile. Lentamente, però, in molte società, quasi ovunque nel mondo, gli uomini hanno cominciato a dominare rimuovendo la donna dal suo ruolo di Grande Madre. Molte storie sono legate alle figure femminili delle streghe, sia in occidente che nel mio paese. Io stessa, che vengo dall’India occidentale, ho immagini che affiorano nella mia memoria della strega della foresta che vola sulla lunga scopa o cucina la zuppa e quando qualcuno arriva, lei lo nutre o lo cura. Ancora oggi, in India, quando in un villaggio una donna ne sa più di un uomo, la gente del posto – i sacerdoti – per assicurarsi la loro posizione la dichiarano strega o qualcosa di simile.

A proposito di storie orali, qual è il loro collegamento con il tuo lavoro?Oggigiorno nel processo della nostra formazione scolastica vengono neutralizzate tutte le differenze culturali. Ci deve essere una sola cultura, un unico sistema, un’unica metodologia d’insegnamento e nel mainstream le storie orali non sono considerate parte della storia. Molto raramente s’insegna qualcosa sulla storia delle popolazioni indigene e sulla ragione per cui siano state rimosse. Cosa è successo alle terre? Come è nata Manhattan o Bombay o Bandra? Nessuno ne parla. Per esempio a Bombay, una delle zone commerciali più costose su cui sono sorti grandissimi edifici come quelli di Manhattan, è vicino all’aeroporto. E’ molto ricercata dalle compagnie multinazionali. Migliaia di acri di terra che erano il letto del fiume. A me piace celebrare lo sviluppo, ma qual è il suo costo? Ogni anno stiamo portando via una parte del flusso dal letto del fiume. Ciò provoca dei cambiamenti. Infatti, ogni anno, durante i monsoni, ci sono inondazioni in un’area compresa tra i 10 e i 20 chilometri.

Quando parlo di storie orali, mi riferisco anche a quello che vediamo, nuove storie come questa di cui nelle scuole, nei dipartimenti di architettura o di ingegneria non si dice nulla. Le storie orali hanno tantissime referenze nel sistema della conoscenza, parlano anche attraverso le canzoni, gli spettacoli. Una volta un tessitore, in una zona indigena, mi raccontò una storia interessante sulla nascita della tessitura. Mi parlò di un ragno d’acqua. Non sapevo che esistessero questo tipo di ragni, così quando tornai a casa mi documentai cercando nell’enciclopedia, perché all’epoca non c’erano né computer né google. Con mia grande sorpresa scoprii l’esistenza del regno d’acqua. Dall’osservazione della natura parte la sua stessa conoscenza, bisogna essere aperti nell’osservare le cose. Un’altra storia, a cui mi sono riferita nell’installazione Lachmi Jagar (2006), riguarda il riso, la sua origine, varietà e coltivazione che è legata alla figura di Lakshmi. Quella storia orale, in realtà, è un poema epico cantato per giorni nella zona di Bastar durante i rituali dopo il raccolto, principalmente dalle donne. Ci ho messo moltissimo tempo per capirla, finché non ho letto il libro Indigenous People of the North Bastar Plateau: Lachmi Jagar dell’antropologo Chris Gregory, a cui mi sono ispirata nella mia opera. Il riso esce dai misurini di ferro (payali) a significare prosperità, con l’augurio che ci sia sempre più riso per tutti.

C’è una certa relazione tra il disegno ingrandito degli anni ’70 e la fotografia del progetto «Nalpar» che appartiene al presente…
Il disegno è un poster che ho fatto a metà degli anni ‘70, quando come artista partecipare al movimento studentesco PROYOM voleva dire anche disegnare manifesti. Quando non si sta bene nel sistema politico in cui si vive, le cose non cambiano se vengono affrontate individualmente. Il singolo può avere un’idea, ma il cambiamento avviene veramente solo quando si è uniti. La collaborazione, cooperazione, negoziazione, interazione aiuta a risolvere i problemi piuttosto che crearli. Quella fotografia illustra la nostra attività a Bastar. Quando, negli anni ’90, sono andata lì per la prima volta, dopo aver conosicuto a Delhi l’artista locale Jaidev Baghel, dissi alla comunità che non avevo soldi – loro pensavano che avessi i soldi del governo – ma che potevamo lavorare insieme. La gente del posto avrebbe deciso quali fossero la priorità, come quelle pompe a mano che si vedono nell’immagine che erano così sporche e senza drenaggio, tanto che l’acqua era inquinata. All’inizio arrivarono solo cinque persone, poi dieci… poi venti… lentamente si è creato un gruppo di lavoro. Il sito di Nalpar è uno spazio pubblico dove chiunque può recarsi per rifornirsi d’acqua. Il design del serbatoio proviene dalla forma degli oggetti anche rituali e dal significato dei simboli, ovviamente modificati dagli artisti. Non è stato ripreso dalla tradizione, ma dall’idea che la gente del posto ha dell’acqua. Ho chiesto come disegnassero l’acqua e loro hanno risposto con una linea a zig zag.

Anche nell’installazione «Wheelers Book Stall Re-visited» si leggono slogan ancora molto attuali…
Negli anni ‘70 eravamo soliti fare manifesti con cui tappezzavamo i muri che riguardavano qualsiasi argomento. Il muro era un modo per comunicare le nostre idee. Chiunque poteva leggerle. Ora a Bombay è vietato attaccare manifesti sui muri, ci sono soltanto spazi a pagamento dove solo i ricchi possono attaccare i loro manifesti, non certo gli studenti né la gente comune. E’ sorprendente, ma ancora oggi molte questioni sono le stesse di allora: l’impatto della colonizzazione, la globalizzazione, la neo colonizzazione. Altri slogan, quelli nuovi, parlano della politica dell’odio che in India è portata avanti dal nuovo governo fondamentalista di destra. Allora pensavamo di poter cambiare la costituzione, oggi ci dobbiamo occupare di salvarla! Da radicali ci siamo trasformati in salvatori. Dobbiamo trovare il modo di parlare, ora che abbiamo una maggiore consapevolezza.

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