Nulla sembra spezzare lo spirito di ribellione del popolo haitiano, ricevuto in eredità da quegli schiavi neri che, nel 1804, diedero vita alla prima Repubblica libera del continente.

Non è bastata a schacciarlo l’interrotta successione di dittature, colpi di Stato e governi corrotti che ha segnato da allora, con poche eccezioni, la sua storia; né il devastante terremoto del 2010, il rovinoso uragano Matthew del 2016, la tremenda epidemia di colera portata in dono dalle truppe di occupazione Onu o l’attuale pandemia da Covid-19 e neppure la cronica instabilità politica e sociale.

Tanto meno ci riuscirà l’attuale presidente Jovenel Moïse, sopravvissuto a mesi di rivolte popolari grazie all’incrollabile appoggio degli Stati uniti, timorosi dell’avvento di un nuovo governo «castro-bolivariano», e del Core Group, il gruppo degli «amici di Haiti» di cui Usa e Ue fanno parte insieme ad altri paesi, volutamente ciechi dinanzi ai massacri, allo smantellamento delle istituzioni e al monumentale saccheggio delle casse dello stato.

Impegnato con le unghie e con i denti a mantenersi al potere, il «nèg banann», l’uomo delle banane, come il popolo chiama l’imprenditore diventato presidente grazie a colossali brogli, ha prima imposto per decreto una serie di misure dirette a rafforzare la sicurezza pubblica, attribuendo una totale immunità agli agenti della neonata Agenzia nazionale di intelligence e inquadrando come terrorismo anche atti di mera protesta sociale. Malgrado «l’unico terrorismo – come evidenzia il sociologo Lautaro Rivara – sia quello dello stato e dei gruppi criminali che co-governano il paese seminando il panico nelle periferie di Port-au-Prince», spesso e volentieri finanziati dallo stesso governo.

Quindi, dopo aver sistemato il capitolo «sicurezza», l’uomo delle banane ha annunciato per quest’anno l’elaborazione di una nuova Costituzione tagliata su misura per lui, inducendo l’obbediente Consiglio elettorale provvisorio a fissare per il 25 aprile un referendum per l’approvazione di una Carta costituzionale a cui sta lavorando una commissione nominata da lui stesso e di cui non è nota neanche una bozza. Referendum che sarà seguito, il 19 settembre, dalle elezioni legislative e dal primo turno di quelle presidenziali e, il 21 novembre, dall’eventuale ballottaggio.

Ma se la comunità internazionale, che da tempo premeva sul presidente per nuove elezioni legislative (in ritardo da oltre due anni), si è prodigata in applausi, il popolo – dai movimenti sociali ai partiti politici passando per le chiese, i sindacati e persino le associazioni imprenditoriali – ha risposto con un fitto calendario di mobilitazioni che dovrebbe culminare con un’insurrezione generale il 7 febbraio, il giorno, cioè, della scadenza del suo mandato presidenziale.

Una scadenza contestata da Moïse, il quale si era insediato il 7 febbraio del 2017 – per un mandato di 5 anni, dunque fino al 2022 – dopo un processo elettorale durato quindici mesi e segnato da due votazioni (la prima delle quali annullata per brogli), tre rinvii e una presidenza ad interim. Ma, poiché la Costituzione stabilisce che l’inizio del mandato debba essere anticipato in caso di problemi con il conteggio dei voti – problemi che nel suo caso si erano registrati in abbondanza – il popolo haitiano ha fissato il termine della sua avventura presidenziale per il prossimo 7 febbraio.

In prima linea nelle proteste, tutte represse con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e persino armi da fuoco, ci sono, anche ad Haiti, gli studenti, i quali, a migliaia, hanno manifestato lunedì in diverse zone della capitale e nei pressi dell’ambasciata Usa esigendo l’immediata rinuncia di Moïse e denunciando l’ondata di sequestri di giovani, aumentati vertiginosamente negli ultimi giorni. E tutto indica che, da qui al 7 febbraio, la situazione non farà che peggiorare.