Una sera di quarant’anni fa facemmo una strana gita ai Castelli Romani. Il nostro era un lavoro curioso: più che con il giornalismo era imparentato con il teatro, con il cinema, naturalmente con il fumetto – allora molto più in voga di adesso- e condito con un pizzico di letteratura e di incoscienza. La chiamavamo satira. La gita di quella sera in particolare aveva a che fare con il cinema. In qualche modo sarebbe stato un omaggio alla commedia all’italiana, alla quale non ci sentivamo particolarmente legati, ma che in fondo faceva parte della nostra mal/educazione giovanile.
Nel portabagagli di una delle auto avevamo alcune divise da carabinieri, prese a noleggio. In quell’epoca di terrorismo e di leggi speciali era come circolare con un carico di armi. Andavamo ad arrestare Ugo Tognazzi. E c’era un fotografo pronto a immortalare l’intera sequenza.

Come tutte le idee che mettevamo in pratica, anche quella era nata appena qualche giorno prima. Il Male era un settimanale, si lavorava sull’attualità, dunque si improvvisava. Era quella la novità, l’invenzione periodica di uno scenario inedito, di un universo falsificato, costruito attorno a una notizia-chiave, a un iperbolico titolo-guida da sparare in prima pagina, che già suggerisse al nostro pubblico una serie di gustose e apocalittiche conseguenze a catena. Calavamo ogni settimana sulla cupa realtà italiana dell’epoca il nostro parodistico fondale, carico di colori pop. E in quel modo mettevamo sistematicamente a soqquadro la lugubre, sonnacchiosa e provincialissima industria dell’informazione, suscitando, salvo rare eccezioni, ostilità, invidie, e querele dai direttori dei giornali falsificati.

In quell’occasione, il numero che stavamo preparando si ispirava a un caso di cronaca giudiziaria. Era trascorso un mese dai primi di aprile del 1979, quando un gruppo di intellettuali legati all’Autonomia operaia, il più famoso dei quali era Toni Negri, erano stati arrestati con l’accusa di essere i capi delle Brigate Rosse. Il mandato di cattura non era fondato su prove, ma su un castello di astrusi sillogismi, eppure costrinse la maggioranza degli arrestati a passare in carcere diversi anni, prima del proscioglimento. Ora che si conoscono i nomi della Direzione strategica delle Brigate Rosse e che è abbastanza chiaro lo svolgimento dei fatti, quella vecchia storia giudiziaria appare risibile. Ma all’epoca la quasi totalità dei mezzi d’informazione salutò quel provvedimento del giudice come giusto e fondato.

Per noi, che ci nutrivamo come parassiti insaziabili della malafede della stampa e dell’ottusità dell’opinione pubblica, era un’occasione da non perdere. Decidemmo di trovare anche noi un mostro da sbattere in prima pagina, un capo delle Brigate Rosse abbastanza incredibile da essere credibile. Ma chi?

Ci concentrammo sulla gente di spettacolo. In fondo, un bravo attore sarebbe risultato più credibile di chiunque altro in un ruolo rischioso come quello del Nemico pubblico numero 1. Da un uomo di cinema vicino alla nostra redazione ci arrivò la «dritta» giusta: Ugo Tognazzi era disponibile a farsi arrestare. Ugo ci aveva sempre seguito con simpatia e l’idea di finire in prima pagina ammanettato solleticava il suo senso dell’umorismo e il suo gusto per le sfide paradossali e anticonformistiche. L’avremmo catturato nascosto nella credenza della sua immensa cucina, dove, come in un prolungamento de La grande abbuffata, trascorreva effettivamente gran parte del tempo davanti ai fornelli.

Così facemmo quella sera, una volta arrivati a Velletri, nel «set» della villa di Tognazzi. Come in un servizio di cronaca nera, il fotografo ci immortalò mentre arrestavamo e trascinavamo fuori di casa l’attore, col grembiulone da cucina ancora legato dietro la schiena. Neanche a dirlo, Tognazzi fu perfetto. Lo sguardo obliquo, la smorfia d’incredula ottusità del colpevole colto sul fatto, il pugno chiuso levato davanti all’obiettivo. Noi, i ragazzi del Male, come ci chiamavano allora, con certi baffoni finti da appuntati di una volta e le divise larghe da trovarobato, tutto sommato ce la cavammo. L’unico in borghese era Sergio Saviane, elegante come sempre, forse un po’ troppo snob per il «commissario» che doveva interpretare.

Quello di «Tognazzi capo delle Br» finì per essere il nostro più grande scoop. Vendemmo il doppio della nostra tiratura abituale, anche se, come sempre, il direttore responsabile fu denunciato e il numero abbondantemente sequestrato. (Il Male era il periodico più sequestrato d’Italia, tanto che del nostro caso si interessò anche una speciale commissione del Congresso degli Stati Uniti che si occupava della libertà di stampa nel mondo).
Il trabocchetto era così perfetto che ci caddero in tanti, anche la gente del mestiere. Mi raccontarono la reazione dell’allora direttore di Paese Sera, quando vide esposta in edicola la prima pagina del suo giornale con la notizia dell’arresto di Ugo Tognazzi. «Cazzo! Perché non mi hanno avvertito!», sembra sia stato l’infuriato commento. Salvo accorgersi poi che l’editoriale portava la sua firma.

Tognazzi, che si era prestato simpaticamente a quell’inganno, ne subì anche delle fastidiose conseguenze personali. I dirigenti della Rai, occhiuti censori allora come oggi, lo tennero per un po’ lontano dai teleschermi. In più quella sulfurea fama di brigatista continuò ad aleggiargli intorno per anni, a dimostrazione del fatto che da noi chi le spara più grosse ha sempre un credito speciale.