Nella short story che apre Ricette semplici di Madeleine Thien (66thand2nd, pp. 183, euro 16, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini) un pesce galleggia in un lavandino e noi lo osserviamo in silenzio mentre il livello dell’acqua si abbassa inesorabile. È pronto per essere cucinato e il suo destino pare anche quello di chi legge queste storie, fatte più per essere manducate con una certa attenzione alla loro ricercata naturalezza che non ingurgitate in un binge-reading compulsivo.

POETICAMENTE organizzate attorno al palato, sono ricette tutt’altro che semplici. Non lo sono per la figlia che assiste il padre nel rituale laico della pulizia del riso come se osservasse un incantesimo, incapace com’è di replicare quella stessa magia quand’è da sola: se a preparare i chicchi è lei, prova a ripetere i gesti ma le manca la cura, e il risultato è immancabilmente «una brodaglia spappolata». La pioggia battente di Vancouver non è poi così diversa da quella monsonica, e così i soffitti ingialliti delle cucine che spesso fanno da sfondo a questi racconti. «Una lingua rubata a qualche altro luogo», quella dei genitori, che come gli aromi di una cucina poco arieggiata, mantiene in serbo il mistero, gli ingredienti come le singole parole restano indistinguibili nella pietanza servita alla tavola attorno alla quale si riuniscono in preghiera madre, padre e figli. La lingua di Thien è l’inglese essendo cresciuta a Vancouver, dove i genitori, un padre cinese nato in una parte di Malesia ancora britannica e una madre cantonese di Hong Kong conosciutisi da studenti in Australia, erano emigrati per aprire un diner che sarebbe fallito dopo soli sei mesi. Il suo cantonese è uno strumento scordato che vibra e risuona solo nei ricordi d’infanzia che popolano i suoi racconti e romanzi. Particolari di una biografia che deve farsi fiction per divenire verità, come nel racconto che chiude la silloge, La mappa della città, dove i genitori di Thien diventano sino-indonesiani e anziché aprire un diner che serve chop suey e uova col bacon apriranno un All Day Grill col padre dietro ai fornelli a cucinare bistecche e uova, maiale in agrodolce e riso, panini imbottiti con la carne. Sarà l’insufficienza renale di Miriam – la bambina ormai cresciuta e sopravvissuta che racconta la storia – a costringere il padre a chiudere la griglieria e a «rovinargli la vita» definitivamente. Quella bambina è la maschera di Thien.

SE L’ULTIMO Non dite che non abbiamo niente l’ha portata alla soglia di un Booker Prize che meriterebbe, i racconti che compongono questo esordio del 2001 avevano all’epoca ottenuto il plauso convinto di Alice Munro. Figlia di molte culture, Thien tesse un rammendo intertestuale che affratella i sette racconti; somiglianze di famiglia che si incrociano e si perdono nei tratti della singola storia ma che voltata l’ultima pagina compongono un ritratto dai contorni meno sfumati: padri incupiti che somigliano a vecchi cani con le loro ciocche bianche o esercitano il loro limitato magistero tra i mestoli mulinando e strofinando con una grazia sconosciuta, madri ombrose ma capaci di sciogliersi in un valzer oppure di imboccare una strada di sola andata per seguire un amore, figli maschi che alle bacchette dei genitori oppongono i rebbi delle forchette e figlie femmine che una volta scappate di casa li avvistano dappertutto, nell’alimentari al banco frutta oppure dirimpetto dall’altro lato del marciapiede, incapaci di decidersi se raggiungerli o meno.
Il Canada, le sue moquette stinte, le tv nel seminterrato e gli irrigatori dei praticelli che disegnano arcobaleni, più che l’esito di un esodo sembra solo un altro punto da cui allontanarsi, e il paese preferito dei personaggi è spesso «quello che non è stato ancora scoperto». «Negli anni, Josie si chiederà, Da cosa fuggi, e perché? Ogni volta la risposta sarà diversa. Perché posso sarà la sua preferita.»

IL PADRE di La casa invece è un Paul Bunyan che sta via mesi interi a disboscare foreste prima che arrivino le gelate invernali mentre a casa la moglie si dà all’alcol e un giorno prenderà la porta per non tornare mai più, lasciando due bambine a guardare vecchi film alla tv. In Quattro giorni dall’Oregon, tre ragazzine formano «un solo gomitolo di rabbia» ammucchiate sul sedile posteriore della macchina di Tom, l’amante della madre Irene in fuga da una casa e da un marito che la reputa solo un po’ sciroccata. Ma questa è una fuga in avanti, come quella di Charlotte, Heather e Jean che non si vogliono più fermare, pensano a come sarebbe prendere un’altra direzione e arrivare fino in Cile, vedere qual è la risposta alla domanda: «Non ti chiedi mai come sarebbe non ritornare?».