Una barista portoricana del Bronx, una contabile del Nevada che ha perso una figlia perché, non essendo assicurata, l ’ospedale ha rifiutato di effettuare gli esami che l’avrebbero salvata dall’embolia, un’attivista/pastore religioso/mamma single del Missouri e la figlia di una lunga stirpe di minatori del West Virginia che lotta per la protezione dell’ambiente. Alexandria Ocasio-Cortez, Amy Vilela, Cori Bush e Paula Jean Swearengin, le eroine di Knock Down the House, hanno indirizzi, estrazioni e look molto diversi ma sono accomunate da due cose: la mancanza di esperienza politica e la volontà di arrivare al Congresso Usa rimpiazzando un senatore o un deputato di carriera e prestigio.

In una fitta selezione di documentari (dall’Apollo 11 a Steve Bannon, a David Crosby e Mike Wallace, al Satanic Temple..) Knock Down the House, venduto a Netflix dopo un’asta molto combattuta tra distributori, è probabilmente quello che più ha creato un senso di euforia in sala – non solo per via dell’apparizione via skype di Ocasio -Cortez alla prima di domenica ma perché -come mi ha sussurrato un amico nel buio- «fa venire qualche speranza».

CONCEPITO quando la riconquista della Camera era ancora un obbiettivo lontano, e cofinanziato da alcune delle organizzazioni di attivisti che dall’elezione di Trump in poi hanno lavorato perché i democratici recuperassero terreno nel midterm, il film di Rachel Lears (The Hand that Feeds) segue le storie parallele di quattro candidate alle primarie. Quattro outsiders totali – spinte a candidarsi da eventi personali e/o dalla realizzazione che i loro bisogni e quelli delle comunità in cui vivono, non sono rappresentati dalla classe politica che dovrebbe farsene carico.

Tra tutti i panel e le banalità sulle donne e la representation che sono sfilati al Sundance di quest’anno, Knock Down the House è lo specchio più tangibile di un processo in corso, in cui la politica delle identità serve non come una battaglia fine a sé stessa, ma per resettare lo sguardo sul mondo, scardinare le vecchie, brutte abitudini del potere, in virtù di un rinnovamento sociale allargato e più profondo.
Lears tratteggia i personaggi e i loro rispettivi milieu e paesaggi (l’Appalachia verde e umida, la capitale meridionale St.Louis, il deserto al neon di Las Vegas, le torri di mattoni scuri del Bronx) in pennellate nitide di dettaglio – dall’incertezza e dalla goffaggine iniziali a una sicurezza sempre maggiore. Vediamo queste candidate self-styled trovare la propria voce -letteralmente e politicamente parlando- davanti ai nostri occhi.

LO STESSO per gli abiti, il trucco. Come dice Ocasio – Cortez mentre si applica il make-up davanti allo specchio, «una donna in politica deve preoccuparsi molto del suo aspetto. Un uomo no». In ognuna di loro, nelle loro famiglie, nei volontari delle campagne da armata Brancaleone, c’è una fierezza commovente, ma così ancorata nel reale che non risulta sdolcinata. L’occhio del film mai accondiscendente. La lontananza dell’establishment da queste campagne fatte di interminabili pellegrinaggi porta a porta, piccoli comizi, volantini stampati in casa, notti insonni…è così assordante da lasciare allibiti.

Mai come nella magnifica scena in cui Joe Crowley (da dieci anni deputato di Queens e del Bronx, presidente del partito democratico di Queens e, quando il documentario è stato girato, uno degli uomini più potenti della Camera), invece di presentarsi personalmente, manda un surrogato a rappresentarlo in un dibattito con la sfidante Ocasio-Cortez. La giovane, fiammeggiante, barista latina sbaraglia l’imbarazzata signora afroamericana con il compito ingrato di far da megafono a un candidato così «fuori dal mondo» che le sue brochure elettorali -distribuite insieme al catalogo di Victoria Secret- sfoggiano le foto e gli endorsement di Andrew Cuomo, Charles Schumer, Kirsten Gillibrand e Bill de Blasio ma non indicano nemmeno la data del voto. Invece di corteggiare leadership del partito, la novellina Ocasio-Cortez si affida alle «teste bianche», i vecchi attivisti di base del quartiere, in gran parte afroamericani. La cosa migliore che può succederti, le spiegano, è che il partito continui a ignorare chi sei, a non considerarti una minaccia.

SE CI FOSSE stato ancora qualche dubbio che la più giovane deputata mai eletta al Congresso Usa è un purosangue della politica, Knock Down the House lo elimina del tutto. Bastano gli home movies di quando era bambina – minuscola -tutta occhi e bocca, e il sorriso straboccante di denti storti- o i racconti del tempo passato con un papà che la adorava e che è morto troppo presto, per far capire che «AOC» è una specie di forza della natura, oltre che un’abile manipolatrice dei social media.
Delle quattro candidate, Ocasio-Cortez è stata l’unica a vincere, quindi la fetta più grossa del film è dedicata a lei. Ma noi speriamo che di Cori Bush, Amy Vilela e Paula Jean Swearengin si sentirà parlare ancora, e presto.