I recenti fatti di cronaca della fuga di alcuni ragazzi dal carcere minorile Beccaria hanno fatto da drammatico contrappunto alle notizie sui tagli in finanziaria per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Se urge togliere risorse meglio farlo a svantaggio dei meno meritevoli – devono aver pensato al governo – e cioè i carcerati. Questo atteggiamento rispecchia il più generale senso comune diffuso negli ultimi decenni per cui il disagio non si affronta cercando di rimuovere le sue cause sociali, bensì enfatizzando la responsabilità individuale dei soggetti che ne soffrono. Ma devianza e marginalità sociale – come si sa – si sovrappongono in buona parte.

Jack London, in Il Popolo degli abissi, racconta come i derelitti dell’East-End di Londra, impediti nel loro vagabondaggio da severe sanzioni penali, finissero spesso sulla strada per questione di fortuna e non di merito. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, è tornata l’ottocentesca imputazione individuale del disagio e della devianza.

E’ stato spiegato da Jonathan Simon che i governi, impossibilitati a redistribuire le risorse proteggendo i ceti più deboli – dovendo seguire fiscalità antiprogressive e ricette favorevoli soltanto all’impresa -, si legittimano difendendo i cittadini meritevoli contro la criminalità. Prima di lui Loic Wacquant aveva rilevato come l’istituzione penale ha il compito di identificare devianza e disagio sociale, criminalizzando la povertà e persino chi la vuole contrastare, come ad esempio le Ong che si occupano dei migranti o politici controcorrente come Mimmo Lucano. Anche Papa Francesco, in un discorso pronunciato all’Ilva di Genova, ha sottolineato che una conseguenza della «cosiddetta meritocrazia» è il cambiamento dell’atteggiamento culturale verso la povertà: «Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa».

Come la società è esonerata dal risolvere il problema della povertà – nella conferenza stampa di fine anno Giorgia Meloni è stata elusiva in proposito – così non mette conto di affrontare quello della devianza secondo il dettame costituzionale: recuperare il reo e reintegrarlo nella società. Anche perché per far questo sarebbe necessario investire risorse che andrebbero chieste – in misura progressiva – ai cittadini italiani meritevoli.

Questo spirito del tempo corrisponde a ciò che Ralf Dahrendorf aveva intuito prima di quasi tutti a metà degli anni Novanta e cioè che le liberal-democrazie stavano sempre più assomigliando al “modello Singapore”: un regime, cioè, in cui la libertà è solo del mercato, a scapito dei diritti civili, politici e sociali. E’ abbastanza indicativo che, nel miliare best-seller Meritocrazia, Roger Abravanel, editorialista del Corriere della sera nonché consulente di Maria Stella Gelmini ai tempi della famigerata riforma, elogiava di Singapore legalità, efficienza e sicurezza, sostenendo che il non essere quel paese una democrazia non preoccupava i suoi cittadini e semmai avrebbe dovuto preoccupare noi (troppo sicuri delle esclusive virtù della democrazia). Mi sono sempre chiesto se Emma Bonino e Giovanni Floris lo abbiano letto veramente dato che in quarta di copertina son riportati i loro entusiastici giudizi sul libro, al cui autore, del resto, il sistema Singapore piace in quanto paradiso meritocratico.

Del resto anche la Cina è in fondo un gigantesco sistema Singapore, in cui in alcune province – come ha raccontato in Red Mirror Simone Pieranni -, vengono sperimentate patenti a punti da cui dipende poi la riduzione o meno del proprio diritto a determinati servizi. La stessa storia, peraltro, raccontata in uno degli episodi della terza stagione della celebre serie tv distopica Blackmirror: si immagina una società in cui ognuno, tramite il cellulare, dà un punteggio ad ogni persona con cui entra in contatto, di modo che la società venga gerarchizzata fra alcuni soggetti che godono della pienezza dei diritti e anzi dei privilegi dell’aristocrazia del punteggio e chi invece è relegato fra i reietti destinati alla prigione.

Da un lato, perciò, si stringono un po’ di viti autoritarie tradizionali (vedi il decreto anti-rave), dall’altro si lanciano campagne simboliche rivendicando il merito come veicolo di riscatto per l’underdog, di modo da integrare la società attraverso un autoritarismo più sottile che è quello della violenza, appunto, simbolica, per cui ognuno interiorizza la struttura competitiva ed elitaria della società all’insegna di un solo modello omologante di valori in cui vince l’atleta più forte, come se la vita fosse uno sport. Ma chiunque di noi può finire in fondo alla classifica. Come scriveva Pier Paolo Pasolini nell’ultima intervista prima di essere ucciso: “Siamo tutti in pericolo”.