Narra Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche di un’arcana contesa: quella tra la musica di Orfeo ed il canto delle Sirene. Una sfida mitica, che si svolge in un tempo che mai è stato e che sempre sarà, leggendaria già nella memoria degli eroi omerici: «Sola quell’Argo che solcava il mare, degli uomini pensiero e degli dei, trapassar valse navigando a Colco»; così Circe, nel Libro XII dell’Odissea, ricorda ad Ulisse la mitica impresa degli Argonauti, i soli che fossero riusciti a oltrepassare indenni la malia delle Sirene. Tutto l’equipaggio si salva, protetto dalla musica del cantore tracio, solo l’Argonauta Bute si tuffa, perché? Cosa vivrà lui che Ulisse, legato all’albero della sua nave, sfiorerà soltanto?

Le Sirene

Esseri ibridi, raffigurati e descritti nell’antichità come uccelli rapaci col volto di donna, affascinanti e repellenti insieme, le Sirene, tre nelle Argonautiche: Leucosia, Ligia e Partenope, divoravano i marinai che passavano in vicinanza delle loro terre, attirandoli verso la morte con un irresistibile canto.

«Alle Sirene giungerai da prima, che affascìnan chiunque i lidi loro, con la sua prora veleggiando tocca. Chiunque i lidi incautamente afferra, delle Sirene e n’ode il canto, a lui né la sposa fedel, né i cari figli verranno incontro su le soglie in festa. Le Sirene sedendo in un bel prato, mandano un canto dalle argute labbra, che alletta il passeggier: ma non lontano d’ossa d’umani putrefatti corpi e di pelli marcite, un monte s’alza».

Così le descrive Circe ad Ulisse, mentre gli suggerisce il famoso trucco della cera nelle orecchie per il suo equipaggio e di legarsi ben stretto all’albero della nave per udirne il malaugurato canto. Quanto possiamo fidarci della maga, forse una dea decaduta, non è dato sapere; molte, profonde e contorte sono le passioni divine ed altrettante le sorde gelosie che nascondono.

Certo la loro nascita, per quanto di volta in volta attribuita a paternità e maternità affatto diverse, è antica. Platone nella Repubblica (617 B-617 C) le nomina nel mito di Er, in cui si descrive la procedura secondo la quale Ananke, il Destino inalterabile, la Necessità cui nemmeno gli Dei potevano comandare e dovevano anzi ubbidire, tesseva la sua ineluttabile trama.

Insieme alle Moire, che cantano il corso della vita e della morte, cantavano le Sirene: «Il filo ruotava sulle ginocchia di Ananke. Sui suoi cerchi, in alto, si muoveva insieme a ciascuno una Sirena, che emetteva un’unica nota, con un unico suono; ma tutte insieme formavano un’armonia. Altre donne, disposte in cerchio, ognuna sul suo trono a uguale distanza, erano le figlie di Ananke, le Moire biancovestite, cinte il capo di bende: Lachesi, Cloto e Atropo; e al suono delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo l’avvenire».

Le Sirene sono così la voce stessa dell’esistenza prima dell’esistere, legate sia alla vita che nasce sia alla sua morte e rinascita; questo ci narra il mito di Er, ed anche come fossero divinità onniscienti, come testimonia Omero quando fa risuonare nella loro voce la verità: «Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga».

Dunque non solo portatrici di una orribile morte sono le Sirene, come un po’ riduttivamente le aveva denigrate la gelosa Circe, ma vere e proprie Potenze oracolari, depositarie del mito che dà vita alla vita, e dunque del senso stesso dell’esistenza; a buon diritto, allora, Plutarco, nelle sue Quaestiones Convivales, ci descrive come Ammonio l’Egiziano rese coerenti le Sirene omeriche con quelle platoniche: «Quanto alle Sirene di Omero, lo spavento che ci incute il loro mito non ha fondamento; al contrario, anche questo poeta ci ha fatto intendere simbolicamente una verità, precisamente che il potere della loro musica non è disumano e funesto; nelle anime che hanno lasciato questo mondo per il cielo e vagano, come sembra, dopo la morte, questa musica suscita l’amore per le cose celesti e divine e l’oblio delle cose mortali. Essa le possiede e le incanta con il suo sortilegio ed esse, piene di gioia, seguono le Sirene e si uniscono ad esse nei loro movimenti circolari. Qui sulla terra una sorta di debole eco di quella musica ci raggiunge e, attraendo le nostre anime con il potere delle parole, suscita in esse il ricordo di quello che hanno sperimentato nella vita precedente. Le orecchie della maggior parte delle anime, tuttavia, sono tappate e bloccate non dalla cera, ma da ostacoli e affetti carnali. Ma l’anima che per la sua buona natura si accorge e ricorda, prova qualcosa in tutto simile ai più folli trasporti d’amore, sospirando e desiderando liberarsi dal corpo, ma incapace di farlo».

In tempi più vicini ai nostri, Tomasi Di Lampedusa riprende lo stesso tema nel suo affascinante racconto Lighea, storia di un amore estivo nelle acque del Mediterraneo di Sicilia tra un giovane aspirante professore di greco antico e la Sirena che lo invita a riposarsi nel suo regno: «Tu sei bello e giovane; dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa quiete tanto connaturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi. Io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e la tua sete di sonno sarà saziata». E così farà il giovane uomo, divenuto oramai vecchio: si tufferà da una nave e raggiungerà il suo unico amore.

Quando, all’inizio del racconto, la Sirena si mostra al giovane, gli dice subito di non credere alle storie che si raccontano su di loro: «Sono tutto perché sono soltanto corrente di vita priva di accidenti; sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me… ed in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma panica e quindi libera… noi amiamo soltanto non uccidiamo nessuno».

Particolare curioso e poco noto: esiste una narrazione del racconto dalla viva voce di Tomasi di Lampedusa. Una registrazione unica, nata per diletto una mattina del 1956, quando a Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore, Tomasi di Lampedusa aveva regalato uno dei primi modelli di registratore a nastro. Per provarne il corretto funzionamento, il giovane ebbe l’idea di registrare la voce del padre adottivo. Con il magnetofono nuovo Gioacchino e la fidanzata Mirella Radice si recarono così nel palazzo di via Butera a Palermo, dove allora abitava lo scrittore, e gli chiesero di recitare uno dei suoi racconti; Tomasi di Lampedusa scelse Lighea. La registrazione è ora custodita ed udibile presso il Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice presso Agrigento.

Questa ascendenza arcaica delle Sirene, l’appartenenza alle scaturigini stesse dell’esistenza, si manifesta anche attraverso la natura chimerica del loro corpo: le Sirene dell’Odissea e delle Argonautiche vivono tra la terra, il cielo ed il mare; ciò consente loro di costituire una «razza comune» ai tre elementi e «farli scambiare tra di loro pegni reciproci», come dice Oppiano di Anazarbo nel suo Trattato di pesca. Questa funzione le colloca nell’ambito delle Potenze primordiali, nate prima che il Cosmo si separasse dal Caos, e quindi ancora capaci di trasmutare di forma e così conoscere l’origine e il destino di ogni cosa.

Esse, come tutto ciò che rappresenta il flusso dell’esistenza, sono ambivalenti, come la verità che promettono di svelare; manifestano in questo modo sia il richiamo dell’Aletheia, la Verità immutabile, sia l’inganno dell’Apate, la menzogna.

Ma le Sirene non solo conoscono la Verità, sono anche in grado di comunicarla attirando l’interlocutore verso di loro: Sirene deriverebbe dal verbo greco sirein che significa appunto legare; sono dunque ancelle di una antica divinità, Peitho, la Persuasione «dalle parole di miele», propria anche alle Muse che condividono con loro l’ambiguità della lingua suadente.

Sul piano mitico Peitho «che non ha mai subito un rifiuto», è per questo assimilata a Venere, la Dea «dai sottili pensieri» e dai «dardi più veloci».

E, come Afrodite, le Sirene possiedono il potere del fascino e la seduzione delle «parole carezzevoli». Vedremo come nella storia di Bute proprio Venere arriverà a salvare l’eroe.

Ecco che cominciamo ad intravvedere la vera sfida tra il canto delle Sirene e la cetra di Orfeo: quella tra la musica degli umani, le cui orecchie «sono tappate e bloccate non dalla cera, ma da ostacoli e affetti carnali», come dice il platonico Plutarco, ed il messaggio primigenio, che «suscita l’amore per le cose celesti e divine e l’oblio delle cose mortali».

Bute e Ulisse

Orfeo, appena vede gli altri Argonauti alzarsi e allontanarsi dai remi, attirati dal canto «soave come giglio» che le Sirene effondevano «senza ritegno», imbraccia la cetra Bistonia e, dice Apollonio Rodio: «Fa risuonare le note allegre di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle. Tuttavia uno degli eroi, il nobile Bute, figlio di Teleonte, precedendo tutti si era alzato dal suo banco levigato dal mare; rapito dalla melodiosa voce delle Sirene, nuotava tra le onde spumeggianti…» (Argonautiche, Libro IV, vv. 900-915).

Lasciamo per un momento Bute al suo tuffo nelle acque spumeggianti mentre nuota verso il canto delle Sirene, e consideriamo un altro eroe che, invece, a quel canto resiste solo mercé un espediente che gli aveva suggerito la maga Circe «figlia di Sole della stirpe di Iperione», sua amante e madre di suo figlio Telegono; una dea divenuta col tempo solo una maga potente.

A differenza di Bute, di cui conosciamo solo il nome e l’ascendenza paterna, di Ulisse sappiamo molto: il ruolo che occupava tra gli eroi della guerra di Troia, il rango di re, i componenti della sua famiglia, i nomi che in altre occasioni aveva usato sino a presentarsi come Nessuno, e l’intera storia che lo ha portato in quelle acque perigliose. Ma Ulisse, il politropos, l’uomo dai mille inganni, signore della Metis, la prudenza accorta, protetto di Atena, ascolta sì il canto, legato al suo albero, ma non lo intende, non lo sente.

Ulisse, infatti, a differenza di Bute, non si tuffa; Omero non gli fa fare questo passo: per il cantore cieco la linea netta che separa umano e divino non si attenua mai. Questa mancanza, questo «tuffo trattenuto», consente ad Ulisse di accedere solo alla parte «emersa», sensibile, della conoscenza; il suo incontro con le Sirene è governato dalla fascinazione che emana dai loro corpi ambigui più che dalla loro voce.

L’eroe, d’altra parte, aveva interloquito nello stesso modo con la parte «infera», spirituale, rappresentata dai defunti, nella sua discesa nel regno di Ade dalla terra dei Cimmeri: anche lì Odisseo non entra, non si immerge, ma resta sulla soglia tremante e distante, mentre offre alle anime libagioni di sangue affinché esse riacquistino momentaneamente la memoria.

Sia in Omero che in Apollonio Rodio, allora, siamo di fronte ad una tradizione nella quale la conoscenza dell’Invisibile, della «trama nascosta» come la definisce Eraclito di Efeso, si ottiene solo passando attraverso la morte iniziatica: Ulisse la sfiora, Bute la vive.

Odisseo, seguendo i consigli di Circe, annoda dunque i lacci che lo trattengono dando ordini precisi; ora, nel testo di Omero, questi legami vengono definiti con due termini complementari e non solo sinonimi: tanto peírata quanto desmoí; il primo indica anche la rotta da seguire. Il termine peírar, in particolare, denota sia i punti di riferimento che tracciano un percorso, sia la rotta che la nave deve aprirsi nello spazio marino, il póntos, l’alto mare. Peírar evoca allora il senso del legame che costringe a seguire la rotta giusta.

Il passaggio, il tragitto, la rotta, possono essere concepiti come un legame, una porta stretta attraverso la quale passare per arrivare allo scopo.

Ad Itaca, intanto, Penelope annoda la sua tela; anch’essa è ispirata da Atena, Dea della Metis, che l’ha resa abile nella tessitura di trame di tela quanto di astuzie. E dunque, il tuffo mancato di Odisseo è il risultato di un calcolo di rotta e di legami: il gesto è niente altro che un punto sulla rotta per tornare ad Itaca.

Il passaggio delle Sirene ed il «tuffo trattenuto» sono, allora, tra i tanti contenuti nell’Odissea, frammenti di quella verità funzionale al nostos dell’eroe. Il canto solo ascoltato gli trasmetterà una conoscenza in più, o forse gli suggerirà un ulteriore possibile inganno da usare nel momento opportuno: ma Ulisse non accederà alla sapienza contenuta in quel suono proprio perché non si tuffa, così come non era entrato nel regno dei morti; solo i fatti, ciò che appare e che gli serve al ritorno gli viene svelato, non l’imperscrutabile essenza.

Avrebbe potuto Ulisse tuffarsi, come aveva fatto Bute? No, non era quello il volere degli Dei che lo muovono.

E così Odisseo, col suo «tuffo trattenuto» verso le Sirene, non compirà il gesto iniziatico. A questo proposito, il suo intento si chiarisce nel Canto XIII, detto dell’Antro delle Ninfe, al quale l’eroe approderà nel ritorno ad Itaca, e che Porfirio ci descrive come il luogo di accesso alla saggezza primigenia, quella che «nasce dalle Ninfe», come dice Platone.

È lì che Ulisse sosterà, ma anche in questa ultima occasione senza entrarci; ne resterà al di fuori, profano, pro-fanum, cioè fuori dal tempio. Si ungerà con l’olio di un ulivo, pianta sacra ad Atena, al fine di purificarsi nel corpo e nell’anima e si fermerà a colloquio con la sua divinità protettrice, pronto così a raggiungere il suo ultimo scopo: ricongiungersi in corpore con Penelope.

Bute, invece, si è tuffato e «rapito dalla melodiosa voce delle Sirene, nuotava tra le onde spumeggianti verso la spiaggia. Sciagurato! Le Sirene gli avrebbero sicuramente tolto il ritorno se…».

È in questo istante ipotetico che si manifesta inaspettata la Potenza che restituisce al gesto di Bute tutta la sua grandezza, il senso iniziatico del tuffo verso il canto delle Sirene: arriva Venere ad accompagnare l’eroe verso il suo splendido destino, verso il premio per aver seguito senza esitazione «la potenza folgorante del canto animale», come la definisce Pascal Quignard nel suo Boutès.

Ed allora: «Cipride, la Dea signora dell’Erice, mossa a pietà accorrendo benevola lo sottrasse ai vortici del mare, e ne fece l’abitante di capo Lilibeo». Saranno Apollodoro mitografo e Igino nelle sue Favole, a dirci il seguito della storia: salvato da Venere, Bute diverrà suo amante; durante il volo salvifico egli penetrerà la Dea e la feconderà del figlio Erice che darà poi il nome alla città in cui la madre sarà adorata come Venere ericina.

Nel corso del tempo il suo culto, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza grazie anche alle bellissime Ierodule, le prostitute sacre alla Dea, cariche di monili preziosi concepiti per far risaltare ogni parte erogena del corpo, unte di essenze inebrianti, signore della danza erotica.

Tucidide fa riferimento ai doni fatti alla Dea ed alle sue sacerdotesse dai pellegrini e Diodoro Siculo attribuisce a Dedalo, fuggito da Creta dopo l’uccisione del Minotauro, la creazione di un ariete d’oro dedicato ad Afrodite. Curiosa circostanza quest’ultima, dato che di un altro Vello d’oro trattano le Argonautiche.

Bute dopo l’amplesso, in estasi, verrà tuffato ancora una volta nelle acque da Venere, come in un battesimo, e resterà così nel suo sarcofago trasparente per l’eternità, in stato di grazia per aver conosciuto, nell’unico modo possibile, la verità ultima: annullandosi in essa.

Afrodite, la Dea generata dalla schiuma dei genitali di Urano, afros, Venere anadiomenon la sempre rinata dallo sperma mistico, non poteva che accogliere nel suo stesso corpo il seme dell’eroe che aveva rischiato la morte per seguire il canto immortale delle Sirene.

Come nella Tomba del Tuffatore di Paestum, possiamo dunque immaginare Bute che si tuffa per l’ultima volta nel mare degli Eroi, il Mediterraneo, con quell’ineffabile sorriso che solo chi ha conosciuto l’inconoscibile, l’ebbrezza del vivere e la serenità dell’esistere, chi come Bute è rinato nel mare e nel mare è tornato, può portare con sé nell’oltretomba.

Orfeo versus le Sirene

E Orfeo, che ruolo ha in tutto questo? A cosa si oppone la sua cetra e perché? La premessa necessaria è che l’impresa degli Argonauti, la conquista del Vello d’oro nella Colchide, è un impegno che Giasone intraprende per via di un preciso ordine del re Pelia. Impresa dettata da un comandamento del tutto umano, quindi, in cui gli Dei giocheranno sì un ruolo rilevante, ma da deuteragonisti. Questo ci dice che la conquista del magico simulacro è impostata come una spedizione militare: niente deve distogliere gli Argonauti dal raggiungimento del loro obiettivo.

A questo fine tutte le armi saranno ammissibili, se funzionali allo scopo: dalla magia di Medea all’assassinio, dallo spergiuro sino alla musica assordante di Orfeo che contrasterà il canto delle Sirene per impedire agli uomini di abbandonare i remi e così far fallire l’impresa.

E dunque, quando le Sirene cominciano a cantare, Bute si alza e spicca il suo salto, la sua danza verso l’ignoto; altri si levano per seguirlo. Ecco che allora si presenta il duello: la musica della cetra fabbricata dall’uomo si oppone alla potenza ancestrale dell’antico canto.

Si tratta di un canto animale, «acritico» lo definisce Apollonio, cioè indistinto, continuo, come l’energia primigenia che ispira l’esistenza. Un canto «acuto», dice ancora l’autore, dunque soprano, superiore, femminile, come tutto ciò che genera, come il grido del bambino quando viene al mondo.

E allora Orfeo oppone a questo registro seduttivo acritico, seduttivo perché acritico, il ritmo rapido e assordante della sua cetra, che suona per un gruppo di uomini che deve solo remare e remare ancora. E così Apollonio mette in competizione due musiche: una che porta alla perdizione, che «impedisce il ritorno», e l’altra orfica, salvifica perché costringe i rematori al loro posto, all’ordine sociale cui sono destinati. Esclusivamente umana, ordinata, la musica di Orfeo «ordina il ritorno» dice Pascal Quignard, che sottolinea come la cetra di Orfeo violenta il canto delle Sirene, cioè contrasta con una violenza tutta maschile la fascinazione siderale del canto femminile primigenio.

Orfeo suona seduto, rigido, come per trasmettere questo senso di inibizione corporea agli altri rematori; mentre Bute si alza e danza verso il mare. Bute, bene lo intuisce Orfeo, è un dissidente, cioè, letteralmente, colui il quale non vuole stare seduto, si stacca dal suo posto. Il cantore deve dunque sedare una possibile sedizione, e per questo genera una musica anti-patica, polare a quella delle Sirene.

Quello delle Sirene è allora il canto dell’acqua della vita, in cui il corpo è immerso nelle prime fasi dell’esistenza, quando ancora il battito del cuore risuona nelle oscure liquidità placentari.

L’ordine sociale non può permettersi di anteporre questo stato onirico incondizionato alle sue leggi, all’ordine dal quale nascono le gerarchie, i confini, le discriminazioni, i generi.

D’altra parte solo la musica delle Sirene può riportarci là da dove veniamo: ma il prezzo da pagare bene lo conosce Bute che, senza esitazioni o timori, si dissolverà nell’elemento della trasformazione, nel seno di tutte le virtualità: quando il pensiero ha paura la musica comincia a pensare.

Come dicono i giapponesi sotto forma di un proverbio: muko mukashi, l’acqua viene dal prima; tornare a questo suono è il vero nostos, che riassorbirà la nostra singolarità dissolvendola.

La musica originaria non è altro che il desiderio di tuffarsi nel mare; il tuffatore è un musico che lascia la vecchia fascinazione fatale riprendere il dominio sul suo essere.

E Orfeo pagherà questa violenza con un contrappasso degno della sua arte: le baccanti, seguaci di Dioniso, lo sbraneranno, e la sua testa salterà con un tuffo nel fiume Ebro e poi lentamente raggiungerà il mare, lo stesso mare delle Sirene.

Ed ecco che le labbra del cantore tracio si mettono finalmente a cantare, a mormorare il solo nome che lo aveva spinto un tempo a rischiare ciò che Bute aveva compiuto: il nome di Euridice riaffiora mentre la testa naviga tra le onde spumeggianti. Flebile lingua murmurat exanimis ci dice Ovidio: mormora esanime la bocca.

Ora senza fiato, senza emettere suono, finalmente Orfeo canta: è morto.

Il gesto estremo vede la testa riversarsi nell’acqua: Flexit Orpheus; l’ultimo canto delle sue labbra esanimi è sott’acqua: ha raggiunto Bute.

Così cantava la nostra testa nel ventre materno.