Un giorno di cui non posso scrivere al presente. Così comincia quel gioiello letterario che è Guasto, di Christa Wolf (edito da e/o). Composto nel 1987 a un anno dal disastro di Cernobyl, la scrittrice affianca alla storia grande e pubblica una esplosione più privata: l’operazione che il fratello subisce al cervello e che verosimilmente gli provocherà danni al linguaggio. Spettatrice di quel teatro misterioso di cui poco e niente si può sentenziare, Wolf descrive lo schianto lieve di un dolore che rende impotenti fino a prostrare; quello fuori di sé su cui poco si può agire se non attraverso le notizie che la raggiungono in casa, poi c’è quello dentro, cioè tra le mura domestiche che assumono tratti sentimentali smarginati in attesa della telefonata che le annunci la conclusione dell’intervento neurochirurgico.

ENTRAMBE LE OPERAZIONI le conduce a mani vuote, per questo è una cronaca credibile che si scorre senza pontificare alcunché ma seguendo ciò che si fa avanti; si tratta di visitazioni minuscole, gesti minimi e speranze riposte sulla salute di un proprio caro e di ciò che resterà del mondo. La sorte di una creatura amata e lo squasso di un futuro che si annuncia con foschi orizzonti per un’umanità più ampia. Nello stesso giorno, senza numeri e statistiche, nel sentire che prima o poi mancheranno le parole giuste della nominazione, a suo fratello quasi sicuramente. Altrettanto capita a Oliver Sacks quando nel suo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (Adelphi, 1986), concentrandosi su alcuni casi, parla di emisferi e zone d’ombra in cui la perdita del linguaggio passa per cortocircuiti neurologici che non sono tuttavia mai del tutto nitidi da interpretare né da consegnare. Sono solo due esempi della vasta letteratura che, a latitudini diverse, interroga il modo in cui il linguaggio – in circostanze di profonda sofferenza – si presenti nel deragliamento, un limite poroso tra il dentro e il fuori, tra il tempo e lo spazio colmo di interruzioni – meccaniche ma non del tutto – da cui sorge, in seguito a un trauma di diversa natura, una esistenza nuova. È forse quella dei semplici, chioserebbe Sacks, che vivono in un luogo intuibile eppure inaccessibile per chiederne loro conto. È un procedere comunque parlante, che sa vedere oltre, bisogna solo stabilire quale sia la frequenza appropriata, risponderebbe Wolf.

NELLA GAMMA DEGLI EVENTI più o meno rimediabili, raro è che di ciò che capita dopo un taglio così radicale sia chi è stato coinvolto direttamente a restituirne il segno, in particolare quando si tratta dell’afasia; non è un fatto politico, neppure un gingillo della mente che perlustra o sospende i propri privilegi, è invece uno stato che ammutolisce e sgomenta costringendo la ricontrattazione di una inedita praticabilità della vita – talvolta prendendo le fila di quella precedente, spesso inventandosene una che non si poteva prevedere.

Ci deve aver pensato anche Francesco Malgaroli, giornalista che ha lavorato a lungo anche per le pagine del manifesto, quando a partire da sé decide di radunare la propria esperienza dopo essere stato colpito da un ictus. Lo fa con coraggio, e assoluto guadagno per chi lo legge, in un memoir che si intitola Passo (Robin edizioni). Ed è proprio seguendolo con pazienza che ci si inoltra in una radura il cui ingresso chiede disarmo e attento ascolto.

La narrazione da dentro è di quanto ricorda, dalla sera in cui come una rivoltella che scoppia nella testa viene assalito. Un tonfo, il mondo addosso che deflagra ciò che era fino a quell’istante la regolarità delle giornate. Fatte di cura per le parole, quelle di Malgaroli da quel punto in avanti diventano anatomia di un corpo che differisce e resta vivo sia pure diverso. Anche il suo – sia pure da un’altra angolatura – è un giorno che, come accade a Christa Wolf, non si può declinare al presente perché dall’accaduto alla lenta riabilitazione trascorrono mesi. In questo processo, sia pure da afasici, non si può essere ingannati, proprio come immaginava Oliver Sacks.

Francesco Malgaroli condivide allora e spiega l’esito di un percorso in cui, nel chiaroscuro della solitudine, si tocca con mano la fatica per riprendere a fonetizzare, poi a comprendere ciò che si emette come puro suono, a intuire che esistono parole nella sua mente che si presentano all’esterno in altro modo. E che all’inizio niente corrisponde, anzitutto i significati e la loro consonanza alle cose della realtà, si deve riprovare. Ancora e ancora.

Impara, Malgaroli, di necessità, che non è possibile tornare indietro, ciò che ha vissuto è piuttosto un avvio per rivalutare un luogo prestazionale a cui non si bada fino a quando uno strappo, nel suo caso una disgrazia, non neutralizza qualsiasi scontata certezza da normodotati. Il panno scuro che si frappone tra l’espressione e ciò che desidererebbe dire è pesante, difficile da codificare. Un labirinto, lo chiama, che a 45 anni è la strada obbligata da intraprendere ogni volta che si immagina, pensa o riflette. Ci si mette in cammino mentre è il tempo a cambiare, la sua qualità interna e il modo di fluire all’esterno. La comunicazione diviene così un sentiero articolato da punti ciechi, pertugi insidiosi, esercizi e varie altre implosioni che per chi è afasico si spostano dal tratto emotivo a quello più pratico.

SI È SOLI in questo attraversamento? Malgaroli ci dice di no, lui non lo è stato, ha avuto accanto la sua compagna e molte altre persone con cui ha trovato connessioni insperate. Anche quando ha creduto che tutto fosse senza scampo. Ed è un dato non di eroismo ma di realtà, di cui – per chi non sa cosa significhi – non si hanno strumenti adeguati di immedesimazione se non quelli della comune e legittima ammirazione.

Ma come vengono meno le parole? A volte è solo una, oppure è la perdita stessa che si deve sperimentare per potersi congiungere con la sorte altrettanto complessa di chi è sottoposto a usura della memoria, fino allo sfilacciamento di ogni segnale che da fuori indichi cosa stia accadendo all’interno. Ne parla Philippe Forest in un romanzo tanto bello quanto potente che si intitola L’oblio (appena uscito per Fandango nella traduzione di Gabriella Bosco) e che imbastisce un ragionamento, poetico e profondo come è abituato a fare lo scrittore francese, sul risvegliarsi nella consapevolezza di una sparizione. È però una scomparsa senza colpevoli. Qualcosa se ne va e qualcuno resta. Dapprima è un’unica parola intorno a cui ci si arrovella, poi è lo stesso continente linguistico che si dirada fino al suo naufragio.

NELL’AMMUTINAMENTO di sé, in cui ancora una volta è un incubo esterno ad annidarsi tra le pieghe del cervello non arreso, il protagonista scrive che «le lettere stesse sembravano allontanarsi le une dalle altre. Si staccavano. Cominciavo a trovare curioso il modo in cui si associavano in sillabe. Ognuna si metteva a brillare sul bianco della pagina. Ritrovando una sorta di solitudine essenziale cui non c’era più modo di attribuire un senso ma che ne faceva emergere la fisionomia propria. Posavo il dito su ogni parola. Rimanevo sbigottito, inebetito di fronte alla piccolissima cosa che era venuta a significare e di cui non sapevo più che cosa pensare». Ecco la condizione che si rende presente e adeguata a essere raccontata, quella di un essere umano che si scopre esposto e nudo davanti all’ineluttabile. Che sa di sventure ingiuste e di dolori a cui è quasi impossibile stare dinanzi ma che ci si deve sforzare di osservare. Anche quando non hanno nome. Almeno da fuori, se proprio non si riesce a farlo da dentro.