Se è vero che nel nostro Paese non c’è nulla di più strutturale delle emergenze, è allora comprensibile perché un governo d’emergenza come quello guidato da Enrico Letta e Angelino Alfano abbia superato la sua prima fiducia su un decreto consacrato ad esse. Non che i nostri capi del governo non abbiano fatto sfoggio di un certo talento: era questo, probabilmente, l’unico modo per ovviare al Patto di stabilità e creare una corsia privilegiata benedetta dall’Unione Europea. Rimaneva da capire chi avesse diritto di viaggiare su tale corsia d’emergenza.
Ci sono finite, insieme al terremoto dell’Emilia, alla bonifica industriale dell’area di Piombino e al Porto di Genova semi-demolito dalla Jolly Nero, le Camere di Commercio e le misure compensative per i Comuni attraversati dall’alta velocità Torino-Lione, quasi a voler riconoscere i «danni ambientali» più volte denunciati dai contrari alla Tav ma più probabilmente per oliare con qualche spicciolo un po’ di consenso tra i riottosi valsusini. Tutto e il contrario di tutto, in buona sostanza. Provvedimenti necessari e altri, come da inveterata prassi, infilati di soppiatto.
La verità è che, nello spiraglio aperto dalla possibilità di sforare i vincoli di bilancio, tutto è diventato una possibile emergenza, persino l’Expo del 2015, in quanto «occasione di rilancio del made in Italy» e dunque dell’economia in ambasce. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: se l’emergenza è strutturale, tutto può essere emergenza, e non c’è nulla di meno provvisorio di essa. Avendo presente questa peculiarità italica, si comprende perché il decreto votato ieri mattina dal Senato, sulla base della fiducia che un governo d’emergenza non possa non essere destinato a durare, non abbia destato obiezione alcuna nell’area vasta – e culturalmente omogenea – delle larghe intese.