Uno dei primi a dirlo era stato Massimo D’Alema: «nel prossimo Europarlamento si dovrà formare una grande coalizione fra i socialisti del Pse e i conservatori del Ppe per arginare l’euroscetticismo». Parole di un mese fa, a margine di un convegno del think tank europeo da lui guidato (Feps), che all’ex presidente del consiglio serve da piattaforma di lancio verso l’ambito ruolo di commissario a Bruxelles. A ripeterlo, ora, sono in tanti.

Lo ha fatto, domenica, un altro autorevole ex: Felipe González, premier socialista spagnolo dal 1982 al 1996, e ancora molto influente all’interno del Psoe. L’ex premier iberico ha dato indirettamente ragione al capolista alle europee del Partido popular, Miguel Arias Cañete, che in un’intervista si era spinto a ipotizzare larghe intese a Madrid come in Europa. E in Germania, luogo per antonomasia della grosse Koalition fra democristiani e socialdemocratici, sono molti gli analisti che hanno notato pochissime differenze nel duello fra Martin Schulz e Jean-Claude Juncker trasmesso la scorsa settimana dalla tv tedesca.

Il vento sembra soffiare, dunque, in quella direzione. E i difensori di quella ipotesi si fanno scudo dei sondaggi: per assicurare la necessaria stabilità istituzionale – dicono – non c’è alternativa all’accordo fra le due principali famiglie politiche «europeiste». Una «stabilità» che significherebbe non cambiare nulla o quasi degli attuali assetti di potere a Bruxelles, salvo magari una semplice inversione di ruoli. Un socialista (Schulz) al posto di un consevatore (José Manuel Barroso) alla guida della Commissione, e un conservatore (Juncker) al posto di una socialista (l’incolore Cathrine Ashton) come Alto commissario per la politica estera. Se si considera, poi, che a novembre scadrà il mandato del presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, le possibilità di comporre un quadro di nomine che soddisfi Pse e Ppe aumentano ulteriormente.

A ostacolare questo disegno sono le forze minori: la Sinistra europea di Alexis Tsipras, i Verdi di José Bové e Ska Keller, e – almeno a parole – anche i liberali guidati dal belga Guy Verhofstadt. I quali hanno dato ampiamente prova, però, di sapersi comodamente ritagliare un confortevole ruolo di alleato minore dei due «grandi», come dimostrano gli ultimi 5 anni della Commissione uscente. Liberali sono state due figure-chiave dell’esecutivo Barroso, come il commissario agli affari economici e monetari Olli Rehn e quello al commercio Karel De Gucht. A quest’ultimo si deve, ad esempio, l’accelerazione nei negoziati (praticamente segreti) sul Ttip, il trattato di libero scambio Ue-Usa.

I numeri diranno se, dopo il 25 maggio, l’Eurocamera di Strasburgo presenterà scenari aperti a maggioranze diverse dalla «grande coalizione». Uno studio del prestigioso Istituto Cattaneo, condotto su sondaggi di tutto il continente, rivela che bisogna attendersi una battuta d’arresto di tutte le forze al governo, dai tories britannici ai socialisti francesi. Solo l’Italia fa eccezione: il Partito democratico è dato in ascesa rispetto alle politiche dello scorso anno.