All’indomani della cocente sconfitta del Frente de Todos, la coalizione del presidente Alberto Fernández, alle primarie «aperte, simultanee e obbligatorie» per le elezioni legislative (Paso), le forze di sinistra non fanno sconti al governo.
Nessuno avrebbe potuto prevedere una tale batosta per il FdT, sconfitto dalla coalizione Juntos por el cambio dell’ex presidente Mauricio Macri in 18 delle 24 province del paese, con il 30,9% dei voti a livello nazionale contro il 40,16% della destra. Eppure per il governo il clima che si respirava nel paese, di fronte alla caduta dei livelli di occupazione, alla perdita del potere di acquisto dei salari e alla crescita della povertà, non era certo dei migliori. Tanto più che la spoliticizzazione dilagante durante tutta la campagna elettorale ha senza dubbio favorito la perdita di memoria dell’elettorato riguardo alle catastrofiche responsabilità dell’amministrazione Macri nell’attuale crisi del paese.

DI SICURO, il governo Fernández non ha fatto nulla per scongiurare il voto di castigo (nel quale ha pesato anche l’astensionismo e il voto bianco o nullo, pari al 38%). La sua maggiore preoccupazione è stata infatti quella di rassicurare i mercati, venendo incontro alle richieste del Fondo monetario internazionale e dei creditori internazionali. E, intanto, amministrare l’esistente, guardandosi bene dal toccare gli interessi delle classi alte.
«Pensavamo che vincere o perdere di misura sarebbe stato un buon campanello di allarme» per il governo in vista delle elezioni legislative di medio termine del 14 novembre, «ma così stata una doccia fredda», ha commentato il leader del Movimiento de Trabajadores Excluidos Juan Grabois, accusando il presidente di non ascoltare «quanti di noi hanno il termometro di ciò che avviene nella società».

Perché di sicuro nessuno là in alto si è reso conto, come ha denunciato lo scrittore Jorge Halperín, che «da un anno e mezzo le maggioranze popolari se la passano ancor peggio di prima, quando già stavano parecchio male». Cosicché, alla fine, ha commentato un altro scrittore argentino, Lois Pérez Leira, le elezioni si sono risolte in «una specie di referendum contro Fernández e contro le timide politiche del governo».

QUESTO REFERENDUM, infatti, il presidente lo ha perso per la sua mancanza di decisione e di leadership rispetto a questioni considerate prioritarie: un aumento consistente del salario minimo, il controllo dei prezzi dei beni essenziali, la creazione di una commissione di indagine su un debito considerato impagabile, un’imposta permanente sui grandi patrimoni. E anche una svolta rispetto al modello estrattivista portato avanti con convinzione anche dal suo governo, attraverso il sostegno a progetti di sfruttamento minerario come quello contro cui è insorta la popolazione della provincia di Chubut. O rispetto all’ appoggio all’agribusiness, su cui Fernández sta puntando per aumentare le esportazioni e così rimpinguare le esangui casse dello Stato, con misure come l’incremento della produzione su larga scala di carne di maiale destinata alla Cina, a scapito di quel modello di sovranità alimentare reso ancor più urgente in tempi di crisi ambientale e climatica.

Ma come se non bastasse la debacle del Frente de Todos, a preoccupare la sinistra è anche l’affermazione, con il 13,66% dei voti espressi nella città di Buenos Aires, di un personaggio come il leader di Avanza Libertad, l’economista ultraneoliberista Javier Milei, il quale ha attratto in particolare il voto dei giovani con i suoi furiosi discorsi anti-casta: «Vengo a rompere il sistema, a liquidare lo status quo, a prendere a calci questi delinquenti». «Più che preoccuparmi, mi spaventa», ha dichiarato la leader delle Abuelas de Plaza de Mayo Estela Carlotto. E i motivi non le mancano. Critico feroce di quello che chiama «marxismo culturale», Milei, che si autodefinisce anarco-capitalista, si è pronunciato a favore di una completa deregolamentazione del sistema finanziario, ha dichiarato che preferirebbe tagliarsi un braccio piuttosto che aumentare le tasse, che non esita a considerare «un furto», e ha definito la crisi climatica «un’altra delle menzogne del socialismo».